Questioni di principio. Non ci sta il Comune di Chiari, Brescia. Un clandestino non può sposarsi. E non importa se la Corte Costituzione ed il Tribunale di Brescia si sono espressi a favore, con apposite sentenze, del matrimonio di chi è sprovvisto del permesso di soggiorno.
Tutto è cominciato nell’agosto del 2009, quando il Parlamento ha approvato la legge sulla sicurezza, voluta dal governo Berlusconi. La normativa prevedeva, tra l’altro, il divieto di contrarre matrimonio agli immigrati irregolari. L’intento era contrastare i falsi matrimoni, finalizzati all’ottenimento della cittadinanza.
L’impedimento si è rivelato però un ostacolo alle unioni per amore.
La Consulta, nel luglio dello scorso anno, ha cancellato il divieto imposto in quanto lesivo del diritto alla famiglia previsto dalla nostra Costituzione.
Sandro Mazzatorta, senatore e sindaco leghista di Chiari, esprime subito la propria contrarietà in merito alla decisione del tribunale e decide di “resistere”.
Per ribadire la propria scelta “di rigore e giustizia”, nel settembre scorso il nostro sindaco emana quindi un’ordinanza, la quale conferma l’obbligo del possesso del permesso di soggiorno, per effettuare le pubblicazioni di matrimonio.
I ricorsi presentati dall’Asgi e dalla Fondazione Piccini sortiscono l’annullamento presso il tribunale di Brescia dell’ordinanza sindacale, ritenuta discriminatoria. E non solo. Il comune viene condannato al pagamento di 4 mila euro di spese legali oltre alla pubblicazione della sentenza su un quotidiano nazionale.
Ma il nostro “rigoroso” sindaco non demorde ed evidentemente certo delle sue ragioni, insieme alla sua giunta, nei giorni scorsi, ha annunciato il ricorso in appello contro la sentenza del tribunale di Brescia.
Poco importa se le speranze di vittoria siano ridotte al lumicino. Ci penseranno i suoi concittadini a pagare il conto. 1258 euro tanto per cominciare. Quelli che servono ad incaricare il legale che seguirà l’appello.
Paola Totaro
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Ho lavorato a Chiari e l’ho trovato il posto più razzista che esiste in Italia. Dopo 2 mesi mi sono licenziata