Costretti a lavorare sotto il sole per 10-12 ore, in scarse condizioni igieniche, senza acqua né elettricità, con pasti miseri e salari ridicoli. No, non è la descrizione della tratta degli schiavi del diciottesimo secolo, ma è quella del ventunesimo. Continuiamo a sentire politici –e non solo- seduti su verdi scranne tuonare “Gli immigrati ci rubano il lavoro, rispediamoli a casa!”.
Eppure è bene cercare di capire come le cose realmente funzionano, per non essere sopraffatti dallo spauracchio della demagogia. Un’indagine condotta dal Ros di Lecce, iniziata nel 2009, ha portato oggi all’arresto di 16 individui tra Sicilia, Calabria, Puglia, Campania e Toscana. Le accuse imputate sono: riduzione e mantenimento in schiavitù e servitù, tratta di persone, associazione a delinquere, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, estorsione, falsità materiale ed ideologica commessa dal privato e dal pubblico ufficiale in atti pubblici nonché il favoreggiamento dell’ingresso di stranieri nel territorio dello Stato in condizioni di clandestinità. La banda era dislocata tra Italia e Tunisia. In Africa venivano reclutati i lavoratori da veri e propri “tutor” che li illudevano con false promesse quali lavoro ben retribuito, assistenza sanitaria, comodi alloggi e libertà garantite.
La realtà che si palesava agli immigrati approdati in suolo italico, se vi riuscivano, era invece la seguente: arrivati a Nardò, piccolo paesino a 30 Km da Lecce, o rimanevano nel neretino oppure venivano dislocati tra il siracusano e l’agro pachinese a lavorare nei campi di pomodori e angurie. “Il termine schaivo è in apparente conflitto con l’attualità” ha dichiarato Cataldo Motta, procuratore della Repubblica di Lecce, eppure l’inchiesta, che portava il nome di “Sabr”, termine arabo che indica la pazienza, ha portato all’arresto di sedici dei ventidue indagati.
All’appello: Meki Adem, capo squadra 52enne nato ad Alobaud (Sudan) e residente a Racalmuto (AG); Belgacem Ben Bechir Aifa, capo squadra 42enne Tunisino residente a Nardò; Bilel Ben Ayaia, capo cellula 29enne nato a Jendouba (Tunisia) e residente a Nardò; Giuseppe Cavarra, 34enne nato a Noto (Siracusa) e residente a Pachino (Siracusa); Marcello Corvo, 52enne nato residente a Nardò; Bruno Filieri, 49enne residente a Nardò; Saber Ben Mahmoud Jelassi, detto “capo dei capi” o il “Sabr”, capocellula 42enne nato a Tunisi e residente a Santa Maria a Vico (Caserta); Pantaleo Latino, 58enne nato e residente a Nardò; Rosaria Mallia, 35enne nata a Noto (Siracusa) e residente a Pachino (Siracusa); Livio Mandolfo, 47enne nato e residente a Nardò; Corrado Manfredi, 59enne nato e residente a Scorrano; Tahar Ben Rhouma Mehdaoui, capo squadra nato a Ouled Medhi (Tunisia) e residente a Nardò; Salvatore Pano, 46enne nato e residente a Nardò; Giovanni Petrelli, 50enne nato e residente a Carmiano; Nizar Tanjar, capocellula 35enne nato in Sudan e residente a Siracusa e, infine, Houcine Zroud, reclutatore 47enne nato a Mahdia (Tunisia) e residente a Santa Croce Camerina (Ragusa).
I sei sfuggiti all’arresto sono già ricercati ma le possibilità di arresto sono molto scarse dal momento che diversi indagati potrebbero essere tornati al paese d’origine. “Purtroppo era significativa la rete composta da centinaia di lavoratori, difficile persino da quantificare, dal momento che i datori garantivano un continuo ricambio di manodopera. Magari una settimana e poi via. Uno sfruttamento intensivo come se si trattasse di macchine, spostate a proprio piacimento da un luogo all’altro della penisola”, ha dichiarato il colonnello Paolo Vincenzoni.
Il punto che resta adesso è cosa accadrà alle centinaia di migliaia di lavoratori. Secondo la legge italiana saranno rispediti al proprio paese di origine dove è difficile sperare ricevano le cure adeguate, anche a livello psicologico, dopo un’esperienza del genere. Ma al momento i Tg nazionali, e il parlamento tutto, devono occuparsi solo di capire cosa fare dopo i ballottaggi.
Luca Iacoponi
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