Viaggio in un centro d’accoglienza, sospesi tra Africa ed Europa

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di Valentina Tortelli

Ahmed pollo, Eric anche pollo, Mehdi invece, pesce. E’ l’elenco del centinaio d’ospiti, ripartito per genere e nazionalità e smarcato attentamente dagli operatori. Sono le 13, ora di pranzo. Loro, gli ospiti, arrivano, prendono il loro pasto in confezioni monodose sigillate e inserite in un sacchetto di plastica e tornano in camera. Così da settimane, mesi. Così, per qualcuno di loro, da 365 giorni: un anno. Siamo nel centro di accoglienza di Falerna (Catanzaro) uno dei vari gestiti dal consorzio di cooperative sociali CalabriAccoglie. Di centri come questo, allestiti per far fronte – nel 2011 – all’emergenza Nord Africa, in Italia ce ne sono tantissimi. Tantissimi nelle stesse condizioni, che significano prima di tutto ospitalità ad oltranza, significano richieste di asilo, dinieghi, ricorsi. Cioè significano attesa.

A Falerna l’attesa passa negli alloggi di un residence. Non proprio fronte mare, ma destinato, in altri tempi, alla ricettività turistica. Minialloggi, con cucinino e bagno. Fuori, un grande spiazzo dove stendere i panni al sole, dove scaldare ossa non troppo abituate a temperature basse e dove giocare a pallone. Preferibilmente senza fare a botte. Solo che questa attesa ospitale ma un po’ coatta logora gli spiriti e chi non si lascia andare buttato sulla branda a contemplare il soffitto in attesa di chissà cosa, si aggrappa anche ad una futilità per attaccare briga. Si attaccano tra di loro, una miscellanea continentale fatta di gruppi dominanti e di minoranze poco rappresentate e questionano con gli operatori sociali – colpevoli nel loro immaginario di tutte le disavventure burocratiche che li vessano da quando hanno messo piede a Lampedusa.

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Da un anno è un viavai: richiesta di protezione internazionale, stesura delle memorie, audizione alla Commissione territoriale di Crotone, attesa. Convocazione presso la Questura, comunicazione dell’esito: diniego. Nessuna protezione, nessun permesso di soggiorno. Consulenza con l’avvocato, ricorso, attesa. Di tutta questa trafila burocratica, necessaria magari, ma che rischia di ingolfare ancora di più la giustizia italiana, l’unica costante è l’attesa. E spesso, l’attesa di un profugo che richiede protezione e i documenti per lasciare il centro di accoglienza, si trasforma in avvilimento, talvolta in depressione e sfocia anche in manifestazioni di rabbia mal contenuta.

Un centro di accoglienza non è un centro di identificazione ed espulsione e non è, dunque, un carcere. Si può entrare e uscire liberamente ma senza un permesso di soggiorno regolare, per quanto temporaneo, tutti gli ospiti africani rischiano di diventare dei Mattia Pascal. Come il protagonista del romanzo di Pirandello, infatti, lontano da casa posso avere nuova vita ma la prospettiva rimane potenziale, perché senza documenti in regola nella società civile non c’è posto. Al limite si può finire ad ingrossare le fila della criminalità organizzata, capostipite di malavita, di caporalato, di ogni forma di sfruttamento.

Una soluzione ci sarebbe e la ha avanzata il Tavolo Asilo con una cinquantina di Enti e associazioni impegnate nel sociale: concedere la protezione umanitaria a tutti i profughi giunti in Italia a seguito della guerra in Libia. Cioè a tutti i malcapitati della giostra chiamata emergenza Nord Africa. La protezione umanitaria è una forma tipicamente italiana, disciplinata dal Testo Unico sull’immigrazione e diversa dallo status di rifugiato o dalla protezione sussidiaria che sono forme giuridiche internazionali. Nondimeno, la sua concessione ai profughi in fuga dalla Libia permetterebbe loro di ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari della durata minima di 6 mesi. Il Tavolo Asilo, nel suo appello al Governo e alle autorità competenti, sostiene che questa concessione permetterebbe di eliminare l’emergenza dinieghi (il 44% delle domande di protezione sono state rigettate, secondo l’Osservatorio permanente sui Rifugiati) e di ostacolare «estese situazioni di irregolarità e di disagio sociale, con gravi ripercussioni sulla società nel suo complesso».

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L’appello del Tavolo Asilo ha trovato discreta eco sulla stampa nazionale e locale, a fianco delle difficoltà economiche in cui versa il sistema di accoglienza a causa di un blocco dei fondi stanziati dalla Protezione Civile per la gestione dell’emergenza. La questione è finita anche sui banchi di Palazzo Madama: l’11 aprile scorso, infatti, il parlamentare Marco Perduca ha inoltrato una interrogazione a risposta scritta al Ministro dell’Interno proprio sul tema emergenza Nord Africa e protezione.

Nel frattempo che si trovi una risposta, è già di nuovo ora di pranzo al Centro di accoglienza di Falerna e in mille altri sparsi in tutta Italia. I profughi si affollano al bancone, in attesa del pasto: Ahmed pollo, Eric anche pollo, Mehdi invece, pesce. Elzeline, però, è stato cancellato dall’elenco. La parabola della sua vita si è esaurita nell’arco geografico teso fra il Sudan e Riace. Il ragazzo è morto a seguito di un incidente stradale, quando la sua bici si è scontrata con un’auto, nei pressi dell’aeroporto di Lamezia Terme. Terra, poi mare, poi ancora terra nella sua esistenza di profugo. E anche quella dove è stato tumulato, accompagnato dalle preghiere dell’Imam, è terra brulla e arsa dal sole come quella natia. Ma magari, quando è approdato a Lampedusa, tutto poteva pensare Elzeline, tranne che a 35 anni ancora da compiere la sua fuga avrebbe fatto un pit-stop definitivo sottoterra, in un piccolo paesino sperso fra le colline del reggino.


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