Nine months, la speranza delle bimbe madri di Napoli

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Nine months è il titolo di una commedia hollywoodiana poco riuscita, nella quale Samuel Faulkner, psicoterapeuta infantile, ha a disposizione i mesi di una gestazione per conquistare la maturità necessaria per sostenere il ruolo di padre. Samuel Faulkner ha 40 anni. Le madri ritratte da Stephanie Gengotti non hanno ancora ‘festeggiato’ le 18 primavere.
Questo viaggio fotografico parte da Napoli, dalla vita di 4 ragazze. Narra una storia diversa, la storia di gravidanze desiderate, di amori indissolubili come solo gli adolescenti sanno tessere, di nonne che sono state a loro volta ‘madri bambine’, di famiglie presenti, di piccole tenerezze e grandi afflati emotivi.
Un tatuaggio che si adatta ad una nuova vita, una chiacchierata complice tra donne nell’androne, un telefono per dire ‘ti amo’, una sottile angoscia sul viso e in un impercettibile formicolio nelle dita mentre pensi ‘sarò capace?’.
Dietro le loro finestre, silenti e nascosti, ci chiediamo se sia incoscienza o coraggio.
Loro intanto, si affacciano ad una nuova tappa della vita.
Carla ha 17 anni, il suo compagno Michele ne ha appena 19 ed è agli arresti domiciliari, vivono a Forcella in una palazzina occupata.
Carmela ha 18 anni un bimbo di 3 e due gemelli di pochi mesi, sta insieme a Jonathan da quando aveva 13 anni.
Virna ha appena 14 anni, studia come estetista e vive con la famiglia nelle palazzine popolari di via Stadera.
Marsia ha 15 anni, il suo compagno Roberto ne ha 20 ed è in carcere, lei e la sua famiglia condividono la stessa stanza da letto.
Se la società e la politica italiane, quasi ancora interamente feudi a dominio maschile, non vogliono ‘vederle’ perché le temono come anomalia di sistema, queste madri bambine hanno la volontà di conquistare e costruirsi con le proprie forze speranza e futuro, senza bisogno di concessioni o regalie. Una volontà che presto convincerà l’Italia a diventare un paese maturo e adulto.
(Testo di Pamela Piscicelli)

Stephanie Gengotti nasce nel 1972 a Roma dove tutt’ora vive. Di nazionalità italofrancese si laurea come interprete in lingua inglese e francese. Nel 2003 inizia come fotografa di scena lavorando per diverse case di produzione. Si diploma in fotogiornalismo alla Scuola Romana di Fotografia dove segue anche un master di moda e ritratto. Ha firmato numerose copertine di libri per la casa editrice Mondadori tra cui “La storia di Safiya”. Viaggia spesso in Africa per diverse ONG, seguendo progetti umanitari nelle zone più povere del continente. Attualmente si dedica a progetti a lungo termine con particolare attenzione alle tematiche sociali. Nella sua ricerca fotografica predilige la combinazione tra ritratto e ambiente. Il suo lavoro è stato esposto in festival e gallerie in Italia e all’estero. Nel 2010 con il progetto “Along the river” vince il Premio FNAC. I suoi lavori sono pubblicati in Italia e all’estero.
È rappresentata dall’agenzia LUZphoto.
www.stephaniegengotti.com

Come ti sei avvicinata a questa professione?
Il mio percorso è stato piuttosto inusuale. Ho incontrato la fotografia a 30 anni. Era il ’98, lavoravo in Rai e facevo l’interprete. Fu un anno molto difficile perché persi mia sorella e così subito dopo il lutto decisi di intraprendere un viaggio in Africa. Un giorno su una spiaggia vidi un’immagine che mi colpì moltissimo: un uomo su una scogliera al tramonto. Niente di particolare ma in quel momento è stato come se avessi avuto un’illuminazione. Avevo una piccola macchina fotografica in mano con la quale scattai la foto e lì ho capito che quella era la mia unica strada e che non avrei voluto fare più nessun altro lavoro se non la fotografa.

Tornata in Italia cosa è successo?
In Rai lavoravo con una ragazza il cui padre era direttore della fotografia del cinema. E così tutte le mattine alle 6 prima di andare in ufficio, andavo a casa sua e lui mi insegnava le nozioni tecniche. Nel 2002, in occasione di un evento culturale da me organizzato, invitai a Roma Safiya, la donna nigeriana che doveva essere lapidata. Quella fu la mia grande opportunità perché le feci, quasi casualmente, una foto che poi fu pubblicata in 27 Paesi e divenne la copertina della sua biografia. Quella è stata la prima foto venduta. Fu allora che ho lasciato il lavoro e ho iniziato a fare la fotografa di scena sui set televisivi.

Qual è stato il tuo primo progetto?
Negli studi televisivi ebbi l’occasione di conoscere i rom. Mi innamorai di questo popolo e decisi di realizzare una storia su di loro. Il lavoro (in bianco e nero e a pellicola) durò un anno e fu il primo passo per mettermi alla prova sul terreno della fotografia documentaria anche se già avevo le idee chiare su cosa fotografare, come e per quanto tempo farlo.

E subito dopo la decisione di frequentare una Scuola.
Si, il passo successivo è stata l’iscrizione alla Scuola Romana di Fotografia dove ho avuto la fortuna di avere come insegnante Massimo Mastrorillo, presenza fondamentale nel mio percorso fotografico perché mi ha aiutato a definire il mio stile.

Veniamo a 9 Months, il reportage pubblicato oggi su Frontierenews. Com’è nato.
Ero al terzo anno di scuola e dovevo lavorare al progetto finale. In quel periodo su Mtv andava in onda un programma che parlava di gravidanze minorili e di come queste ragazze in America fossero seguite dagli assistenti sociali. Così mi chiesi come fosse la situazione in Italia. Grazie ad un’amica conobbi la dottoressa di un consultorio di Napoli che mi mise in contatto con cinque giovani donne, disponibili a raccontarsi e soprattutto a farsi ritrarre con il pancione.

Indubbiamente l’essere donna ha rappresentato un privilegio in questo caso.
Tra di noi si è instaurata un’intesa molto forte. Le ragazze sin da subito hanno dimostrato un’apertura incredibile. Erano molto contente di poter raccontare la loro storia e portavano la pancia con “fierezza”. Ho capito che per loro la gravidanza non era un problema ma piuttosto l’opportunità di rivestire un ruolo sociale chiaro. Ho 39 anni e l’idea di avere un figlio mi terrorizza. Ai miei occhi queste giovani mamme che non si fanno paranoie e che con coraggio portano a termine la loro missione, appaiono come delle “giovani eroine”.

In questo progetto ricorre spesso l’elemento finestra…
Le finestre rappresentano l’opportunità di rapportarsi con tutto ciò che è esterno al loro nucleo familiare. Sono “ragazze di famiglia” che non escono molto, trascorrono le giornate in casa e quando si concedono una chiacchierata con la vicina, lo fanno appunto, tramite finestra.

I nomi di tre fotografi.
Sibylle Bergemann, Lise Sarfati e Todd Hido.

Cosa ti interessa trasmettere con i tuoi lavori?
Desidero raccontare a fondo le persone che fotografo. Spesso queste sono deboli ma con una forte capacità di relazionarsi con l’ambiente in cui vivono per quanto povero e incasinato possa essere. E per me già il fatto che riescano ad essere felici nonostante tutto, ha un valore mitizzante. In quel momento loro sono oggetto del mio desiderio per cui non riuscirei a descriverli in maniera negativa o ancora peggio a privarli della loro dignità.
(Intervista di Teodora Malavenda)

Rubrica a cura di Teodora Malavenda


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