di Emilio Garofalo
Oggi è il 26 giugno. Per alcuni, un giorno caldo, estivo, come tanti. Per altri, una semplice data sul calendario. Per gran parte degli Stati mondiali, invece, è una importante ricorrenza: si celebra, infatti, la giornata mondiale contro la tortura, dedicata a tutte le vittime di questa infame pratica. Anche l’Italia risponde alla chiamata della comunità internazionale, scendendo in piazza.
Questa sera, a partire dalle 18, in piazza del Pantheon, a Roma, i Radicali hanno in programma di manifestare per tenere alta l’attenzione su un fenomeno che, nonostante la vigilanza delle comunità internazionali e degli osservatori garanti dei diritti umani, è ancora diffusissimo. E, se da un lato c’è grande attenzione, con importanti mobilitazioni sociali (pratica cui il popolo italiano raramente si fa trovare impreparato), dall’altro si registra il grave e colpevole ritardo legislativo in cui incorre il nostro Paese .
Nel codice penale italiano, infatti, non v’è alcuna traccia normativa che vieti il ricorso a questa inumana violenza. E, soprattutto, che preveda l’applicazione di pene in caso di tortura. Il vuoto normativo italiano risulta ancor più grave se si pensa ai 25 anni trascorsi dalla ratificazione della Convenzione ONU contro la tortura. In un quarto di secolo, dunque, il legislatore ha omesso di prevedere uno specifico reato. L’assenza, nel nostro Paese, di una legge di tale portata pesa enormemente. In Italia, infatti, benché sussistano enormi garanzie costituzionali, echeggiano ancora l’inquietudine e la tristezza di vicende di cronaca giudiziaria: la morte di Stefano Cucchi, 31enne romano che perse la vita durante la custodia cautelare in carcere, o la sparizione dell’imam milanese Abu Omar.
O, ancora, i massacri durante il G8 di Genova, nel 2001. Situazioni, queste, in cui la pratica dell’illegalità e della violenza (rese ancor più gravi perché perpetrate da quegli organismi o istituzioni che ne avrebbero, invece, dovuto scongiurare ogni ricorso) non ha trovato alcun ostacolo di legge.
Ma non è soltanto l’impreparazione del legislatore a gettare ombre sulla Repubblica. Il diritto nazionale subisce quotidianamente sempre più discredito perché, oltre a non prevedere alcun dettato normativo, risulta sempre più impegnato, viceversa, nella promozione di azioni delegittimanti il divieto di tortura internazionale.
Secondo le denunce di Amnesty International (che ha definito la lacuna legislativa come “grave, incomprensibile e dolorosa”), infatti, l’Italia sarebbe impegnata in una costante erosione delle garanzie delle persone espulse. E, ancora, il nostro Paese avrebbe delle responsabilità (e se ne chiede, pertanto, l’accertamento) anche relativamente alla pratica delle rendition, ovvero la procedura illegale di cattura, deportazione e detenzione di soggetti presunti terroristi.
Un diritto nazionale, quello italiano, che non risponde alla chiamata del diritto internazionale, del quale avrà pure ratificato la Convenzione ONU, ma ne ha sicuramente disatteso le aspettative. Una delusione, dunque, che giunge inequivocabile, anche a seguito del mancato sostegno al Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.
S’attendeva la ratifica e la conseguente adozione di soluzioni normative di prevenzione della tortura. L’Italia non ha eseguito la prima, né promosso la seconda. Oggi, 26 giugno, queste sono le sconfitte della legge italiana. Nelle piazze, invece, la vittoria della coscienza.
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