Venezia, Brindisi, Ancona: quei respingimenti illegali verso la Grecia

di Riccardo Bottazzo

Venezia – C’è chi, come Alì, è arrivato già morto. Asfissiato in fondo alla stiva, dentro il cassone del tir dove si era nascosto. Chi, come il piccolo Zaher, è stato travolto dalle ruote di un camion in manovra mentre cercava di fuggire dalla polizia portuale. Tutti gli altri vengono rimandati indietro, come pacchi postali con l’indirizzo sbagliato. Anzi peggio. Perché un pacco postale gode della garanzia di consegna in buono stato e della rintracciabilità via internet. I profughi no.

Li sbattono a forza nelle stesse stive in cui si erano nascosti per raggiungere l’Italia senza dar loro la possibilità di contattare prima un legale o un operatore sociale. Li riconsegnano senza pietà agli stessi aguzzini cui avevano cercato di fuggire, senza concedere loro il diritto – riconosciuto dalla legge Italiana oltre che dalla normativa europea – di formalizzare la pratica per la richiesta di asilo. Vengono rimandati, senza se e senza ma, verso quella Grecia dalla quale hanno tentato di scappare e dove li attendono violenze, botte, prigionia, umiliazioni, sofferenze e torture. E non sono le “solite” associazioni umanitarie a dirlo ma la stessa Corte di Strasburgo che, con una sentenza del gennaio 2011, ha condannato la Grecia per “trattamenti inumane e degradanti” nei confronti dei profughi in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. Perché in Grecia, di fatto, lo status di rifugiato non esiste e i migranti in fuga da Paesi in guerra come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Eritrea – guerre in cui l’Italia e l’Europa non possono certo affermare di avere la coscienza a posto – non hanno nessuna speranza di venire accolti.

Ecco quanto accade, tra l’indifferenza generale, in tutti i porti adriatici dove fanno scalo i traghetti greci. Venezia soprattutto, ma anche Brindisi, Ancona, Bari. E nelle cronache dei giornali hanno pure il coraggio di chiamarli “rimpatri”. “Ancora clandestini al porto. Subito rimpatriati in Grecia” ci è toccato di leggere sul Gazzettino. Come se fosse la Grecia la loro patria! Hanno il coraggio di definirli “clandestini” anche se la Carta di Roma chiede ai giornalisti di usare i termini corretti ed evitare sensazionalismi per quanto concerne le notizie su richiedenti asilo e rifugiati. L’etica professionale evidentemente non serve per fare carriera.

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Il caso di Alì, arrivato morto asfissiato, assieme a due compagni anch’essi afghani sopravvissuti per puro miracolo, è solo una delle ultime tragedie al porto di Venezia. Una frontiera dove il diritto non esiste ed è tutto demandato agli umori e alla discrezionalità della polizia di dogana. Quasi mai, quando questi profughi vengono scoperti nelle stive, viene data loro l’opportunità di contattare gli operatori competenti per formalizzare la richiesta di asilo. Anche l’assistenza sanitaria, dopo quella tremenda traversata in fondo alle stive, è ridotta al minimo e limitatamente al tempo necessario per reimbarcarli. E stiamo parlando di uomini ma anche di donne e di bambini (sia Zaher che Alì erano entrambi minorenni) in fuga da guerre e fame, arrivati in Italia dopo un’odissea di privazioni che ben raramente dura meno di due anni.

Queste sono le persone cui neghiamo il fondamentale diritto all’asilo. Ed è difficile anche conoscere con esattezza quanti sono i profughi che rimandiamo ogni anno in Grecia perché tutto viene svolto in una clima di sospensione dei diritti. Niente viene mai formalizzato o contabilizzato. Chi non ha documenti, non ha neppure diritti. Una volta bisognava essere ebrei.

Secondo una stima dell’osservatorio veneziano contro le discriminazioni razziali, nato da un Protocolo di intesa tra l’Unar e il Comune di Venezia, ottenuta incrociando dati della Prefettura e del Cir, nel periodo che va dal gennaio al dicembre del 2010 più di 600 richiedenti asilo sono stati respinti e consegnati al personale di bordo delle navi greche senza aver prima incontrato né mediatori né interpreti. Vale la pena di sottolineare che la polizia di frontiera, come ben spiega una direttiva europea recepita dal nostro ordinamento, non ha alcuna competenza nello stabilire la fondatezza o meno di una richiesta d’asilo e che, in ogni caso, rimandare chiunque verso un paese dove può subire trattamenti inumani e degradanti viola il principio di non refoulement. Una pratica di respingimento collettivo quindi, non solo illecita ma anche illegale e per la quale, nel caso di quanto accaduto con i profughi dalla Libia, l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea per il diritti dell’uomo.

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Un simile ricorso portato avanti da 35 migranti respinti al porto di Venezia, circa metà dei quali minorenni, grazie all’assistenza legale di alcune associazioni locali costituitesi nella Rete Tuttiidirittiumanipertutti, è tutt’ora pendente presso la stessa Corte e si attende la sentenza a breve.

Da sottolineare come la stessa amministrazione comunale di Venezia sia di fatto estromessa dalla possibilità di intervenire in un porto militarizzato ed inteso come “zona franca”, dove i diritti sono assolutamente secondari rispetto ai criteri, del tutto ipotetici, imposti dalla “politica della sicurezza”. Neppure agli operatori sociali messi a disposizione dal Comune viene consentito di avvicinare sempre i profughi sbarcati e, in pratica, gli viene impedito di svolgere il loro compito di assistenza e di tutela dei diritti umani. E non scrivo “diritti dei migranti” perché i diritti sono di tutti e quando sono negati lo sono per tutti.

A tale proposito, l’assessore veneziano alla pace, l’ambientalista Gianfranco Bettin, ha commentato in occasione di un incontro con la stampa organizzato dall’Osservatorio Unar: “La situazione che oggi viene denunciata è l’esito di una politica svolta quasi senza eccezione di continuità in Italia da circa un ventennio, basata sull’ossessione di limitare l’immigrazione e di respingere sempre e comunque. Nel caso di quanto accade nel nostro porto, siamo di fronte alla versione più odiosa di questa pratica, perché se respingere persone che sfuggono dalla povertà e dal bisogno sociale è comunque una grave violazione, respingere persone che fuggono da luoghi in cui è messa a repentaglio la loro vita è un crimine contro l’umanità ancora più odioso. Respingere i richiedenti asilo non significa solo negare i più elementari diritti umani ma anche perseguire una politica velleitaria, irrazionale e alla fin fine anche controproducente. Senza una gestione trasparente dei percorsi di queste persone che comunque non hanno scelta e sono costrette dalla guerra e dalla povertà a venire qui, non si fa altro che lasciare campo libero a quelle organizzazioni criminali alle cui violenze assistiamo tutti i giorni”. Eppure, il fallimento della politica che pretendeva di trasformare l’Europa in una fortezza è sotto gli occhi di tutti coloro che sappiano leggere un po’ più a fondo quanto è successo e sta succedendo nel mondo arabo con le rivolte di primavera, e anche a casa nostra con i deludenti (e vergognosi) risultati di quella barricata contro le migrazioni che si vantava di essere la Bossi Fini. Ma i nostri porti e in particolare il porto di una città storicamente aperta a tutte le culture come Venezia, non possono rassegnarsi ad un degradante ruolo di frontiere senza legge. Non è questa la loro storia. Non è questa la loro tradizione. Devono tornare ad essere quello che sono sempre stati: porte aperte verso altri mondi e altre culture. Non cittadelle fortificate dove i diritti fondamentali dell’uomo sono sottoposti alla discrezionalità della politica del momento.

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Riccardo Bottazzo è anche autore del libro “Il porto dei destini sospesi”, pubblicato nel 2010 e scaricabile gratuitamente a questo link.


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