Shodesh, “ecco come viviamo noi bangladesi in Italia”

testo e foto di Stefano Romano

Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta della cultura bangladese e del suo popolo. Dopo aver parlato nella prima parte, delle tradizioni e della storia del loro paese (bidesh), questa volta ci concentreremo su come vivono i bangladesi nel nostro Paese (shodesh).

Scuola di italiano per madri bangladesi

POPOLO DI MIGRANTI. Le migrazioni dal Bangladesh hanno avuto inizio nel Settecento, alternandosi secondo le vicende politiche nazionali. Nel 1947, per esempio, quando il Bangladesh era ancora Pakistan orientale, i forti conflitti tra hindu e musulmani portarono circa 3 milioni di hindu verso l’India e circa 846 mila persone d’inverso nel Bangladesh. Con la guerra d’indipendenza dal Pakistan nel 1971, 10 milioni di bangladesi cercarono rifugio in India. Verso l’Europa la prima grande onda migratoria cominciò nel ‘600, come manodopera a basso costo importata nel Regno Unito dalla Compagnia delle Indie Orientali. Questo spiega la massiccia presenza di migranti bangladesi, ancora oggi, nel Regno Unito; al punto che tali immigrati vengono chiamati sia probashi (“abitanti di fuori” – migranti) sia londoni (britannici). Fino al 2003 la migrazione era quasi esclusivamente maschile, per poi subire un lieve incremento nella partecipazione femminile che rimane però al 5%. Oltre il 70% dei probashi è diretto verso i Paesi del Golfo, seguiti dalla Malesia e da Singapore.

Donna in strada per festeggiare la Festa della Donna

BANGLADESI IN ITALIA. In Italia il flusso migratorio dal Bangladesh iniziò negli anni Ottanta, principalmente nell’area romana, dove si registrò negli anni Novanta il primo caso di occupazione di uno stabile (La Pantanella, ex-fabbrica di pasta abbandonata) da parte di cittadini immigrati, a causa della mancanza di luoghi ove dormire. Da quel momento il movimento d’entrata nella nostra nazione non si è più arrestato. Se nel 1990 la sanatoria della “legge Martelli” contava 4.296 permessi di soggiorno per cittadini bangladesi, nel 2003 si registravano 27.356 residenti, sino ad arrivare agli 82.451 d’inizio 2011.
Tolta Roma, che è la città con la più alta presenza di bangladesi (il 18,5% della collettività), la regione che segna il numero maggiore di cittadini del Bangladesh è il Veneto (18.900, il 22,1%) e poi la Lombardia. Il Lazio è al terzo posto con il 20,1% (17.200). Dei residenti globali il 32% è rappresentato dalle donne, e la fascia di età principale è quella dei giovani adulti (18-44 anni) che rappresenta il 71,5% del totale. Gli alunni bangladesi nelle scuole nell’anno scolastico 2010\2011 sono stati 10.500, dei quali 1.556 (il 14,8%) iscritti nelle scuole della Provincia di Roma. La stragrande maggioranza dei probashi è in Italia per lavoro, soprattutto di tipo subordinato; ma è in aumento anche l’imprenditoria: sono al quarto posto fra le collettività immigrate nell’ambito dell’imprenditoria (il 4,3% del totale degli stranieri), in primo luogo nel commercio. Come rimesse, nel 2010 dall’Italia sono partiti 193 milioni e 500 mila euro verso il Bangladesh; il 27% (52 milioni di euro) solo da Roma.

Queste sono le statistiche per avere un quadro generale di quanti sono e dove vivono i bangladesi in Italia. Ma come vivono da noi?

Alunna di scuola di lingua bangla

SRONIK: SACRIFICI, LAVORO E UMILIAZIONI. È stato presentato tempo fa in una delle scuole più famose per presenza di alunni stranieri di Roma, la Carlo Pisacane, nel cuore del quartiere bangladese per eccellenza, un saggio curato da Francesco Pompeo intitolato “Pigneto-Banglatown” (Meti edizioni), dove si analizza lo stile di vita dei bangladesi in un quartiere che sembra uno spaccato di Dhaka. Questo saggio esamina bene le dinamiche della quotidianità. La prima cosa che emerge, anche dagli studi documentati nell’ultimo rapporto Caritas-Migrantes 2012, è che i cittadini bangladesi che giungono in Italia sono giovani maschi, spesso di formazione e status medio – alto, partiti per elevare il proprio status sociale ed economico, i quali si trovano però davanti una realtà che al contrario li mortifica. Per molti di loro diventare sronik (lavoratore) in Italia è un declassamento sociale, che riguarda anche la famiglia del lavoratore nel bidesh, dove frequentemente le famiglie sono commercianti, hanno un’attività (kaj) che non ha il medesimo valore di un’attività manuale o subordinata, appannaggio in Bangladesh a gusthi (patri lignaggio di appartenenza di una persona) di infimo livello (F. Pompeo, pag. 78).

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In poche parole, lavorare in un call-center, un internet-point, un negozio di frutta, o peggio avere una bancarella ambulante, rappresenta un’onta per la famiglia di provenienza, e per lo stesso probashi in Italia. Infatti, la maggior parte delle famiglie in Bangladesh non viene mai a sapere della reale condizione di vita dei propri parenti nel nostro paese, quale sia esattamente il loro lavoro. Tutti i sacrifici e le umiliazioni patite qui da noi sono segrete a chi rimane in bidesh. A loro arriva solo il flusso di denaro che testimonia l’agiatezza dei migranti lavoratori. Ha dunque senso rimanere in Italia perché pare che in Bangladesh non sia così facile investire le risorse economiche in progetti di autopromozione; da noi invece, se si ha tenacia, volontà e una mente dedita agli affari, lo sronik può migliorare la sua posizione sociale (manifestata simbolicamente dal vestiario) e di riflesso (con la traccia del denaro inviato) elevarla anche in Bangladesh. Aggiungiamo, inoltre, come per arrivare a questi status sociali i probashi spesso siano costretti a vivere in stanze sovraffollate, in posti letti pagati profumatamente ad affittuari bangladesi – questo è un mercato nero senza morale che specula sulle vite dei propri concittadini – o italiani che fanno affari d’oro. Vengono chiamate bachelors’ houses (le case degli scapoli), e capita che alcuni uomini vivano con la famiglia in un quartiere e dormano in questi alveari umani perché là hanno il luogo di lavoro, stanze con anche tre letti a castello e brandine varie tutte pagate singolarmente.

STATUS SOCIALE E POLITICA. Questo è l’universo psicologico ed economico complesso in cui si muovono i bangladesi in Italia. Ovviamente esiste anche una larga percentuale di famiglie felici e benestanti, con avviate attività e case acquistate con il mutuo dove abitano senza coinquilini. Lo status sociale è fondamentale, non solo agli occhi degli italiani – ha una diversa considerazione un venditore di rose per strada, da un cuoco in un ristorante italiano fino ad un imprenditore – ma anche agli occhi della stessa comunità bangladese. Credo si possa affermare che non molte altre comunità migranti in Italia pullulino di capipopolo quanto quella bangladese. Figure che hanno fatto fortuna, ricche, a cui si legano membri diversi della comunità di quartiere, anche e soprattutto per questioni politiche. Come abbiamo spiegato nella prima parte, l’uomo bangladese sente in modo vigoroso le vicende politiche; pertanto in Italia si ricreano le stesse dinamiche e divisioni politiche che animano le lotte di partito nel proprio paese. O si è per l’Awami League (il partito governativo dell’attuale Primo Ministro Sheikh Hasina) o si è per Khaleda Zia (il partito nazionalista d’opposizione), i quali si contendono il potere – anche con passati spargimenti di sangue – dall’indipendenza dal Pakistan. Pure in Italia ci sono partiti, testate giornalistiche, eventi culturali affiliati a queste due opposte fazioni. Se sei amico di uno seguace di un partito difficilmente potrai esserlo anche di qualcuno che milita nel partito opposto.

Bangla Patshala a Roma (Scuola lingua bengalese per bambini)

LA LINGUA BANGLA, UN’EREDITÀ COMUNE. Fortunatamente non c’è solo la politica ad animare l’orgoglio dei bangladesi. La difesa della propria lingua livella ogni differenza. Il rispetto per i martiri della nazione, deceduti affinché il bangla fosse la lingua del Bangladesh, è il cuore delle scuole di lingua che si aprono in ogni città italiana: le bangla pathshala o Bangla Academy, nascono con l’intento di preservare la conoscenza della lingua alle nuove generazioni. Bambini nati qui, che alternano l’italiano a scuola la mattina alla propria lingua nei corsi pomeridiani, o fine settimanali, tenuti da madri volenterose. L’alfabeto bangladese deriva dall’alfabeto Brahmi ed ha 11 vocali (che mutano se seguono una consonante) e 27 consonanti.

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LA MUSICA NEL SANGUE. Ai bambini viene insegnate anche la danza e la musica tradizionale. Sì, perché la musica è veramente nel sangue di questa gente: sembra quasi che ogni donna in cuor suo sogni di essere una famosa cantante, e tutte intonano canzoni suonando l’harmonium (strumento a tastiera alimentato dall’aria prodotta da un mantice, suonato con una mano che pigia i tasti e con l’altra che contrare il mantice), mentre agli uomini si riservano le percussioni (tabla).

Donna suona l'harmonium e un uomo le tabla durante una festa hindu

Potreste essere stupiti dal trovarvi davanti donne con mole notevole tirar fuori voci esili come usignoli. È sufficiente andare ad un qualsiasi festival – il più famoso è il Boishakh Mela che celebra il Capodanno bangladese (Pôhela Boishakh) che cade il 14 Aprile – per assistere alle esibizioni delle artiste del luogo e alle danze coloratissime dei bambini. Segno inequivocabile di quanto sia importante la conservazione delle proprie tradizioni culturali. Altri festival più piccoli (il Boishakh Mela dura solitamente una settimana) ma sempre colorati – queste feste sono un’occasione per le donne di sfoggiare gli abiti più belli, i saree acquistati nei giorni precedenti – sono il Falgun (la Festa della Primavera che coincide con il 13 Febbraio) e la pitha-mela (la Festa delle torte). Tra quelle religiose c’è l’Eid, la festa per la fine del Ramadhan.

Shaheed Minar a Roma


CULTURA BANGLADESE, UNA TRADIZIONE DA CONSERVARE.
Ancora riguardo alla conservazione delle tradizioni, che nella maggior parte dei casi equivale, per le comunità migranti, ad una riproduzione in terra d’immigrazione delle abitudini della terra d’origine, va ricordato come a Roma sia stato donato qualche anno fa uno spazio verde dove erigere una copia in scala minore del Monumento ai Martiri (Shaheed Minar), presso cui vengono deposti i fiori dalla comunità nella notte del 20 Febbraio.

I bangladesi sono rinomati giocatori di cricket, come tutta l’area indo-pakistana e srilankese che ha subito l’influenza del colonialismo britannico. Attraverso lo sport i ragazzi cercano una via di rivalsa alla loro condizione di vita in Italia, ed è successo che squadre di cricket formate da ragazzi giovanissimi siano arrivate a competere ad alti livelli (per poi scontrarsi con la burocrazia dei tesseramenti). Solo a Roma vanno citate tre importanti squadre: il Bangla Boys Cricket Club, il Rome Bangladesh Cricket Club e il Piazza Vittorio Cricket Club.

I matrimoni avvengono invece quasi esclusivamente in patria, qui è impossibile sostenere economicamente il costo di un matrimonio che dura quattro giorni e sfami tutta la cerchia di amici e parenti dello sposo e della sposa. Del resto, un matrimonio povero sarebbe un’onta insopportabile per la coppia e le loro famiglie. Molto meglio prendere dei giorni di ferie e andare a sposarsi in Bangladesh.

La comunità bangladese è a prevalenza musulmana ed hindu (con un numero minore di buddhisti e cristiani). La differenza è riscontrabile solo dalle donne: le musulmane hanno iniziato ad indossare il velo classico islamico (hijab), laddove in anni passati lasciavano scoperto il capo per velare unicamente i capelli in modo leggero con lo scialle dell’abito (ulna), mentre le donne hindu, se sposate, hanno un tratto rosso all’attaccatura dei capelli nel centro della fronte. In Italia sono molte le moschee e i centri islamici gestiti da imam bangladesi, a volte in garage, dove si insegna anche l’arabo ai bambini (iqro).

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Nel campo del lavoro abbiamo già detto come questo popolo sia forte nella rivendita al dettaglio di generi alimentari e nei servizi (phone center, internet point). Mentre le donne, che negli anni addietro rimanevano per lo più in casa senza imparare mai l’italiano, ora si integrano molto meglio, ed è in aumento positivo il numero di donne bangladesi attive nel sociale, come mediatrici culturali.

Bambina truccata per Falgun

IMPARIAMO IL BANGLA. Per concludere, un po’ di terminologia. La frase che sentirete maggiormente in una conservazione bangladese è thik ache (nelle due pronunce thik accè o thik assè) che vuol dire “Sei d’accordo?” o “Sono d’accordo”: provate ad ascoltare una telefonata qualsiasi di un bangladese per strada e ne avrete la riprova. “Uomo” si dice manush, mentre “donna” si dice mohila, sebbene stranamente le donne non amino sentirsi chiamare in questo modo: tra di loro si chiamano bhabi, che equivale alla nostra “cognata”, indica una parentela più affettiva e simbolica che reale (ma un estraneo non può rivolgersi in questo modo ad una donna bangladese). Ammu è la madre e abbu il padre; i bambini vengono affettuosamente chiamati babu. Il complimento ad una donna va dal semplice shundor (bella) sino al massimo della bellezza che è fatafati: un complimento del genere fa sgranare gli occhi a qualsiasi donna bangladese, così come i complimenti ai loro abiti a cui tengono molto e sono parte integrante della loro vanità.

Anche questa parte non può essere esaustiva. Deve terminare qui. L’intento non è enciclopedico né ha la presunzione di essere un saggio. È solo un tentativo di avvicinare ciò che sembra lontano, incomprensibile. La sfida della multiculturalità, delle moderne frontiere, è quella non di rendere un tutto omogeneo ed amorfo, ma mantenere l’alterità per renderla prossima a noi quanto più possibile. Conoscere gli altri è una ricchezza sia per noi quanto per loro. E aiuta a vincere i pregiudizi.

Quando ci si accosta al parco un bangladese che vuole venderci una rosa, o un lavavetri al semaforo, è sufficiente un no ed un sorriso, senza scortesia. E pensiamo che con una nostra moneta lui magari riesce a far studiare i figli o comprare i medicinali ai suoi genitori nel suo paese. Questo non è qualunquismo, ma una delle dinamiche che regolano i rapporti tra i Paesi dalle economie avanzate a quelli che rientrano tra le economie povere. A Dhaka ci sono bambini minorenni che lavorano nelle fornaci del vetro e dei mattoni quasi 24 ore al giorno per avere come paga poche monete che sfamano tutta la famiglia. Magari uno di questi bambini è il figlio di chi vi sta vendendo una rosa. Pensiamoci.

Proverbio bangladese: “Non disprezzare chi non ha niente perché anche tu te ne andrai senza niente.”

Dati statistici tratti da “Asia Italia – Scenari migratori” (CARITAS- MIGRANTES)

LEGGI ANCHE LA PRIMA PARTE: “Bidesh, il patrimonio culturale che vi portiamo dal Bangladesh”


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11 Comments

  • Articolo bellissimo come sempre… 🙂

    Comunque vorrei segnalare delle cose sia per l’autore nonché mio amico Stefano e anche per altri lettori che leggeranno questo articolo dopo di me:

    – È “sromik” con la M e non con la N, che indica operaio o lavoratore manuale; mentre la parola “kaj” significa lavoro in generale…
    – La pronuncia corretta è “goshthi” e non gushthi, gushthi in alcuni dialetti può significare famiglia…
    – Il partito principale dell’opposizione attuale si chiama BNP (Bangladesh National Party) e Khaleda Zia è il nome della donna che il capo di questo partito… Eh già, tutte e due i partiti politici più importanti del paese sono guidati da donne… 🙂 Uno scenario che personalmente penso che sia ancora inimmaginabile qua in Italia…
    – Gli Eid sono due e non solo il fine ramadan, l’altro Eid si festeggia quasi 70 giorni dopo l’Eid al-Fitr (fine ramadan) e si chiama Eid al-Adha (detto anche festa del sacrificio).
    – Quella specie di sciarpa che si usa sopra i vestiti tipici si chiama “orna” e non ulna…
    – Poi “fatafati” è un po’ come “bona” a Roma… XD È non è tanto carino dirlo a qualche donna per complimentarla se non hai rapporti tanto stretti con lei… Puoi andare sul sicuro con “shundor” riferito a tutto, magari anche per complimentarle per i vestiti, o “shundori” (forma femminile) per riferire alla sua bellezza fisica…

    E infine, faccio di nuovo i miei complimenti all’autore dell’articolo per la sua bravura. 🙂

    • Grazie a tutti e grazie ad Ariful per le segnalazioni, è giusto indicare qualora vi sia qualche errore perché molte delle informazioni le ho apprese “sul campo” in questi anni, e a voce spesso vanno perse le finezze grammaticali.
      Comunque per quanto riguarda i primi due errori, essi vengono direttamente dalle pagine del saggio di Pompeo.
      Il nome del partito di opposizione invece mi è sfuggito, anche perché parlando con i bangladesi loro si rivolgono al partito sempre riferendosi al loro capo, perciò l’ho inconsciamente identificati.
      Sulla festa di Eid hai ragione in pieno, è stato una mancanza dovuta all’essenzialità imposta dal poco spazio.
      Sull’orna poi come mi dicevi in privato, ho avuto forse informatori di Barisal.
      Grazie ancora per l’attenzione e i complimenti.
      Se altri trovassero inesattezze si sentano pure liberi di segnalarle.

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