Pamir, la guerra civile che mina la dittatura in Tajikistan

Manifestanti del Pamir a New York

di Riccardo Bottazzo

Nel leggere i comunicati diffusi dal ministero della guerra tajiko, nel Pamir sarebbero in atto solo delle “scaramucce tra l’esercito regolare e bande di trafficanti di droga”. Sempre secondo questi comunicati, che la maggior parte dei media occidentali ha ripreso pari pari e senza nessuna verifica – a dimostrazione dell’interesse praticamente nullo che tanto l’Europa che gli Usa nutrono per questo angolo di mondo -, si sarebbero registrati non più di venti morti dall’inizio di agosto ad oggi, equamente divisi tra militari e narcotrafficanti.

Fatto sta che queste cosiddette “scaramucce” sono tuttora in atto e, anzi, si stanno intensificando, tanto che l’ambasciata tedesca di Dushanbe si è assunta l’incarico di radunare tutti gli europei presenti nel sud del Paese e riportarli a casa. Anche l’ingresso nel Paese è diventato più difficile. Ottenere un visto turistico o anche lavorativo per il Tajikistan, lo so per esperienza diretta, è oggi una impresa più difficile del consueto. E anche quando riesci ad ottenere il sospirato visa (non di rado allungando qualche mazzetta da un centinaio di dollari ai funzionari dell’ambasciata), un timbro supplementare mette in chiaro che il tuo permesso di ingresso “non vale per il Pamir”. Viene il dubbio quindi che quanto sta succedendo sotto il Tetto del Mondo, non siano solo “scaramucce tra esercito e banditi”. Anche se i giornali locali fanno a gara per riprendere i comunicati ufficiali del Governo senza uscire di una sola virgola – da queste parti si finisce in galera per molto meno! – le storie che ti raccontano la gente per strada, i viaggiatori allontanati dal Pamir e i volontari delle tante ong impegnate in progetti di sostegno con fondi europei, sono completamente diverse.

I morti, intanto. L’esercito avrebbe subito perdite superiori ai duecento soldati. “Hanno mandato sulle montagne i ragazzini di 18 anni appena arruolati e i pamiri li hanno fatti a pezzi” mi ha detto un amico di qui al quale ho promesso l’anonimato. “Il Governo ha cercato di nascondere tutto quello che è successo parlando di lievi perdite e cercando di sminuire gli avversari. Ma la realtà dei fatti è che i pamiri hanno sempre mantenuto il controllo delle loro montagne. Dalla fine della guerra civile non è cambiato niente da quelle parti. Questa estate l’esercito ha cercato di riprendere il controllo di un territorio che è una delle porte del traffico di droga proveniente dall’Afghanistan, ma da come vanno le cose, le sta prendendo di brutto. Anche la televisione di regime manda in onda solo immagini di repertorio e chiacchiera di una serie di ‘importanti vittorie ma parziali’. Che è come dire che stanno perdendo”. La prima vittima di una guerra, si sa, è sempre la verità.

Guerra infinita. Durante i cinque anni di guerra civile, dal ’92 1l ’97 (cinque anni ufficiali, nei fatti gli scontri nel Pamir si sono protratti per altri due anni sino a che l’esercito non si è ritirato), i pamiri, popolazione con una forte presenza ismaeleita, hanno combattuto dalla parte della fazione perdente, il partito islamico. L’avvento del presidentissimo Emomali Sharifovich Rahmon, padre padrone della patria, ha posto fine ai combattimenti ma, di fatto, l’esercito si è ritirato sia dalle provincie più a sud, il Pamir, che da quella ad est del Paese, il Gorno-Badahšan, dove in pratica non ha autorità. I problemi maggiori sono però nel Pamir, dove sono duri ai banchi gli ismaeliti, una potente fazione sciita, riconosce come capo spirituale solo l’Aga Khan che li finanzia generosamente, così come fa il governo di Teheran.

Il “presidentissimo”. Quella che accade nel Pamir insomma, è una vera e propria guerra civile che rischia di mettere a dura prova la credibilità interna del presidentissimo Emomali Rahmon e del suo regime talmente “democratico” che non ha bisogno di indire libere elezioni per seguire la volontà del popolo. Rahmon si è fatto costruire da un architetto italiano una sede presidenziale proprio nel mezzo di Dushanbe che è la copia esatta della Casa Bianca. Gli orridi palazzoni della città – dei veri e propri incubi architettonici! – sono pieni di sue gigantografie che lo ritraggono mentre coglie il grano o sorride al popolo in mezzo a campi di papaveri. Palazzoni che sono quasi tutti di sua proprietà o di proprietà di qualcuno dei suoi nove figli. La figlia maggiore in particolare, sembra abbia una vera a propria vocazione da “palazzinara”, come diremmo in Italia.

L’economia delle mazzette. Il post sovietismo in Tajikistan ha traghettato tutto il peggio dell’ex Cccp ma senza poter contare sulle sue risorse economiche. La scuola, la sanità, i principali servizi civili sono gratuiti ma è come se non ci fossero. La delinquenza è praticamente sconosciuta ma la corruzione è eletta a una vero e propria attività commerciale che nessuno può evitare come non si può evitare di uscire di casa per andare a fare la spesa. Lo studente che vuole passare l’esame deve pagare il professore, il professore che vuole lavorare deve pagare il preside, il preside il provveditore e il provveditore il ministro. Il ministro infine deve consegnare una percentuale dei suoi guadagni a lui, al presidentissimo, e alla sua famiglia di squali. Tutto questo “commercio” in nero ha una ricaduta pesantissima sulla società. Uno come il Trota qui potrebbe diventare medico o ingegnere in due giorni e senza scandalizzare nessuno. Le lauree le vendono un tanto al chilo. Ma negli ospedali aperti al popolo, dove le attrezzature sono ferme a vent’anni fa, mai rinnovate e mai sottoposte a manutenzione, trovare qualcuno in grado di formulare una diagnosi corretta è praticamente impossibile. Così gira la ruota in Tajikistan. La droga che arriva dall’Afghanistan qui non crea problemi sociali perché non si ferma che per elargire le regolari mazzette ai funzionari di frontiera. I trafficanti sono riconoscibili a vista. Girano in auto fiammanti di grossa cilindrata, sgommando ai semafori con accelerazioni da formula uno, mentre i poliziotti, presenti ad ogni angolo di strada, girano la testa per far finta di non vedere.

“Meglio lui che gli islamici” “Rahmon? Sì, ruba, lo sappiamo tutti che ruba – mi sono sentito rispondere da più persone del posto -. Ma lui ha portato la pace dopo la guerra civile. Meglio lui che gli islamici. Noi siamo musulmani ma siamo abituati a bere birra e vodka, i precetti li osserviamo ma anche non li osserviamo. In moschea a pregare regolarmente qui ci va il 10 per cento della gente”. E così a denunciare la corruzione del regime come un male sociale sono solo i mullah sunniti che rimproverano al presidentissimo di essere più incline ai principi dello zoroastrismo che a quelli del Corano. La risposta di Rahmon non si è fatta attendere: ha chiuso tutti i centri salafiti – ristoranti compresi – e richiamato in patria tutti i giovani tajiki che studiavano nelle madrasse (scuole di teologia) estere.

Decisioni che non sembrano sufficienti a fermare l’avanzare dell’islamismo. A Dushanbe il numero di donne che abbandona il copricapo tajiko (in pratica un fazzolettone colorato annodato dietro la nuca alla contadina) per il velo islamico, che non fa assolutamente parte della tradizione locale, è sempre più alto. In un Paese in cui l’organizzazione politica o sindacale è un reato contro lo Stato e se scendi in piazza per protestare ti sparano, la moschea è l’unico luogo in cui può ritrovarsi chi è schifato da un regime che ha eletto la corruzione a principio democratico. La guerra civile che si combatte sul Tetto del Mondo rischia di precipitare sino a Dushanbe.


Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.

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