Una sera in un campo di Libera, tra ‘ndrangheta e sogni di un romeno di Calabria


di Luca Iacoponi

E’ l’ultima sera al Centro di educazione alla legalità e all’ambiente di Cutro, sul lato est della punta d’Italia, la Calabria. Sei giorni trascorsi tra lavori nei terreni confiscati ai clan di ‘ndrangheta, pomeriggi di formazione e incontri con testimoni. A schiacciare la zona è il clan degli Arena, famiglia mafiosa che di questa terra brulla decide il bello e, sopratutto, il cattivo tempo. A strappare un miracolo ogni giorno ci pensa il sindaco di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole, che ha lasciato tutto per inseguire il sogno di svegliare i suoi concittadini perché siano loro il motore dell’antimafia. Ci pensano anche quei giornalisti che dicono no alle pressioni della mafia e i magistrati, penso a Curcio che ho avuto il piacere di conoscere. E ci pensa anche Libera, l’associazione di Don Luigi Ciotti che ogni anno ospita nei suoi campi oltre 4mila volontari.

Mentre mi godo il fresco serale, raro miracolo della canicola calabra, incontro Mario, un ragazzo rumeno di 18 anni. Gli ultimi 8 anni della sua vita li ha trascorsi qui a Isola, vivendo con altri giovani in una casetta di circa venti metri quadri che lui chiama “la casa dei sette nani”. Mi saluta e mi chiede chi sono. Gli spiego che accompagno un gruppo di ragazzi, che cosa è Libera e che vengo da Pisa. “Che bella la Toscana!” esclama con un sorriso. Rispondo che anche la Calabria è bellissima. Mario storce la bocca e scuote la testa. “No, qua è brutto. Tutta mafia!”. Gli chiedo di argomentare e lui mi dice che in tutta la zona comanda la mafia e che non ci si può far nulla. Mi racconta di essere giardiniere e di lavorare tutto il giorno per il villaggio turistico lì vicino. E’ stato fortunato. Ha trovato un lavoro e ha un contratto regolare. Purtroppo questo non gli basta per vivere in un appartamento in città. Gli chiedo se ha mai avuto contatti o subito pressioni da parte della ‘ndrangheta: “No, a noi non ci fanno nulla. Loro ammazzano i ricchi, noi ci lasciano stare”.

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Controbatto e gli dico che non è così, che di innocenti ne ammazzano e gli racconto la storia di Domenico “Dodò” Gabriele, morto dopo tre mesi di coma per le ferite riportate nella strage avvenuta a Crotone in un campo di calcetto il 25 Giugno 2009. Una storia tra tante, purtroppo. Alza le spalle e rassegnato mi dice: “Non possiamo farci nulla. Deve essere lo Stato che deve intervenire! Ma lo stato è il primo a essere mafioso! Uno pensa l’Italia, l’Italia… e poi?”. Annuisco e mi si gela il sangue nelle vene. La speranza di cambiare le cose c’è. La lotta alla mafia si fa ogni giorno, acquistando un prodotto o un altro, accettando delle pressioni o meno, tacendo o parlando, osservando e criticando. Questa è la grandissima parte che possiamo fare noi, gli dico. Sorride, mi da ragione ma ripete “io credo che la mafia non si sconfiggerà mai.”. Gli chiedo di sognare che questo possa accadere perché a sognarlo in tanti ci si crede e diventa realtà. Sorride e alleggerisce la materia della conversazione: “In Toscana c’è lavoro?”.

Avrei voluto continuare a parlare, chiedergli un po’ di più della sua storia, dei suoi sogni ma la chiacchierata è dovuta terminare.
L’incontro con Mario è stata un’altra perla di questa esperienza. Conferma il fatto di quanto il mondo sia fatto da persone, ognuna con una storia, ognuno con qualcosa da raccontare, ognuno con la possibilità di dialogare. Non so quanto Mario farà nella lotta alla mafia, non so se Mario è il suo vero nome, non so se continuerà a fare il giardiniere o abiterà sempre in Calabria e non so nemmeno se mai ci rincontreremo ma avere il piacere di confrontarsi rimane qualcosa di unico. Poter parlare liberamente, senza etichette, senza nazioni, in un luogo dove lo scempio dell’omertà giace sopra i crimini mafiosi, è qualcosa che merita di essere evidenziato, raccontato.


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