di Stefano Zambon
Uno dei maggiori luoghi comuni che capita di incontrare nel corso di un dibattito sugli effetti dell’immigrazione e della presenza di stranieri in Italia è sicuramente “gli stranieri ci rubano il lavoro”.
Per contraddire questa affermazione necessitiamo di uno strumento, oltre che di un po’ di buonsenso: i numeri che sono perfettamente forniti da un recente volume redatto dalla Fondazione Leone Moressa , ormai un must per coloro che si occupano di economia dell’immigrazione, che nel suo “Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione” del 2012 fornisce accurati e importanti dati riguardo a questi fenomeni. È proprio da queste informazioni che cominciamo a muovere la nostra indagine.
Partiamo da alcuni dati introduttivi: gli stranieri rappresentano nella realtà italiana più del 7% della popolazione residente e costituiscono il 9,8% degli occupati totali. La presenza di manodopera straniera ha conosciuto negli ultimi anni, precisamente tra il 2007 e 2010, un significativo aumento, dal 6,5% al 9,1%. Questi lavoratori sono però segregati in quella che viene definita la manodopera low skilled, ovvero la manodopera non qualificata o bassamente qualificata: sono infatti occupati in mansioni non qualificate il 37,7% degli occupati stranieri nel nostro paese.
Ma sarà quindi vero che “gli stranieri ci rubano il lavoro?” L’afflusso di stranieri è ormai incontestabilmente ritenuto, in ambienti accademici, come un dato positivo in quanto sopperisce il più delle volte alla mancanza di manodopera locale. Ma è necessario analizzare più a fondo queste dinamiche occupazionali analizzando esse sulla base delle differenti professioni. Ad esempio nel settore del artigianato e del lavoro operaio specializzato, si è realizzata un chiara sostituzione tra la manodopera straniera ed italiana: che ha visto un aumento di lavoratori stranieri per un totale di 132mila posti di lavoro mentre registrava un complessivo calo della manodopera italiana di 174mila unità.
Possiamo dividere questa analisi proposta dal rapporto della Fondazione L. Moressa in tre principali casi: quello della over sostituzione, della sostituzione perfetta e della sostituzione parziale.
Appartengono al primo caso, quello della over sostituzione, ovvero quello in cui l’afflusso nel mercato del lavoro di manodopera straniera è stato maggiore rispetto al calo dei lavoratori italiani, le mansioni del settore della ristorazione: cuochi, camerieri e baristi. In questo segmento si collocano anche le professioni non qualificate dell’industria come ad esempio i saldatori, montatori e lattonieri.
Il secondo caso, quello della sostituzione perfetta in cui l’ingresso nel sistema occupazionale di lavoratori stranieri copre l’uscita di manodopera italiana, riguarda invece professioni quali il commercio ambulante (sia esso alimentare, ortofrutticolo o di altro genere), i pittori, laccatori e parchettisti.
Una dinamica di sostituzione parziale si è invece registrata in mansioni quali: magazzinieri, manovali edili, muratori, carpentieri, autisti, idraulici e macellai. Settori nei quali l’avvento di lavoratori stranieri non è riuscito a coprire il calo della manodopera italiana.
A confermate ulteriormente questa analisi secondo cui il lavoro straniero in Italia sia complementare a quello degli italiani lo otteniamo grazie al fondamentale studio di Venturini e Villosio “Labour market effects of immigration”.
Considerate le professioni sopra indicate dobbiamo però osservare come esse siano occupazioni scarsamente specializzate, mansioni per le quali i lavoratori italiani sono meno propensi ad accedere (non perché troppo choosy). A sopperire a questo progressivo calo dei lavoratori italiani in questi settori c’è però la manodopera straniera che, come abbiamo osservato in questo articolo, riesce in sostanza a coprire il buco lasciato dagli occupati italiani.
Infine, bisogna amaramente osservare come, nella realtà economica e sociale italiana, a una disuguaglianza etnica corrisponde una disuguaglianza lavorativa.
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