dalla nostra corrispondente Natina Balzano
PECHINO – Bassam al-Salhi, inviato del presidente palestinese Abbas, è arrivato a Pechino giovedì, a poche ore dalla fragile tregua tra Israele e gruppi radicali di Hamas che dovrebbe porre fine alle violenze nella Striscia di Gaza.
Scopo della visita era proprio cercare appoggio nella risoluzione della crisi dai cinesi, che si erano già nei giorni scorsi fatti sentire, per bocca di una portavoce del Ministro degli Esteri, manifestando apprensione per la situazione e con un appello al cessate il fuoco nella Striscia. Hua Chunying aveva dichiarato il 21 novembre che il governo cinese avrebbe continuato a “compiere sforzi per mitigare la situazione tra Palestina e Israele e mantenere la pace e la stabilità nella regione nella nostra maniera”.
La maniera cinese è quella di un sostegno diplomatico netto all’Autorità Palestinese, espresso anche nei commenti di Yang Jiechi, titolare degli Esteri, che ha ribadito a margine dell’incontro con al-Salhi il supporto alla “giusta causa del popolo palestinese” e alla richiesta della Palestina di essere ammessa come membro alle Nazioni Unite.
Nel 2011 la Repubblica Popolare Cinese aveva infatti sostenuto la campagna ‘Palestina 194’ per l’inclusione a pieno titolo nell’ONU e il riconoscimento come Stato secondo i confini antecedenti la Guerra dei sei giorni, del 1967. La mozione presentata alle Nazioni Unite dall’OLP, attualmente solo un “osservatore” al suo interno riconosciuto come unico legittimo rappresentante del popolo palestinese, è sotto minaccia di veto da parte degli Stati Uniti. È per questo che la Palestina spera in maggiori pressioni a suo favore da parte della Cina, il cui peso, ha detto Bassam al-Salhi a Pechino, è “parallelo” a quello degli USA.
La fretta con cui in un momento così critico la Palestina si rivolge alla Cina non è casuale: la Repubblica Popolare Cinese è uno dei maggiori sostenitori dell’Autorità Nazionale Palestinese al di fuori del mondo arabo. Fin dal 1949, la Cina di Mao Zedong ha fortemente sostenuto la lotta della Palestina nell’ottica della guerra globale anti-imperialista e anti-capitalista e dell’opposizione agli Stati Uniti e ai loro alleati. La RPC ha sempre avuto stretti legami con Arafat e l’OLP, oltre che con gruppi militanti come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.
D’altra parte, la stessa Repubblica Popolare Cinese era, fino al 1971, esclusa dall’assemblea delle Nazioni Unite, che riconoscevano come rappresentante dei cinesi la taiwanese Repubblica di Cina. Anche dopo la sua ammissione nell’ONU, la Cina ha continuato a supportare la causa palestinese nel contesto internazionale; è stata inoltre tra i primi Paesi a riconoscere lo Stato Palestinese e stabilire relazioni diplomatiche formali a seguito della dichiarazione di indipendenza del 1988: l’Ambasciata di Palestina ha oggi sede insieme alle altre rappresentanze internazionali nell’elegante quartiere di Sanlitun, a Pechino.
Negli anni ’80, con l’apertura all’Occidente spinta da Deng Xiaoping, la Cina ha però ammorbidito la sua posizione su Israele e gradualmente ripreso i contatti con lo Stato ebraico, sebbene il riconoscimento ufficiale sia arrivato solo nel 1992. Alcune fonti parlano di incontri segreti e trattative avviate già dal decennio precedente, anche in campo economico e militare.
Il pragmatismo politico cinese, che proprio in Deng Xiaoping ha avuto il suo massimo fautore, non si smentisce dunque nemmeno in questo caso: nell’ambito di scambi commerciali sempre più intensi tra i due Paesi (aumentati di oltre 200 volte in 20 anni, come dal Ministero del Commercio hanno ricordato in occasione del “China – Israel Innovation Day”, appena due mesi fa), Israele è diventato per la Cina un importante fornitore di armi e tecnologie militari. Nel 1997, solo l’opposizione degli Stati Uniti ha bloccato il trasferimento di un sofisticato sistema di radar da Israele alla Cina.
Non bisogna dunque farsi eccessive illusioni sull’interventismo del Dragone, che continuerà a mantenere la sua posizione di non ingerenza, cercando di non opporsi frontalmente agli Stati Uniti sui temi più delicati. La maniera cinese è infatti anche quella dell’interesse immediato: Pechino evita un coinvolgimento diretto nelle questioni del Medio Oriente ed è preoccupata piuttosto della stabilità nella regione, con gli equilibri (seppur precari) che gli USA contribuiscono a mantenere, che giovano ai suoi affari con ‘nemici’ e ‘amici’. D’altra parte, l’appoggio diplomatico alla Palestina è anche uno strumento per ingraziarsi la ricca Lega Araba, nonché un investimento per il futuro, in quanto uno Stato Palestinese potrebbe fare da testa di ponte per la penetrazione economica di Pechino nella regione.
Insomma, chi si aspetta un ruolo di primo piano della Cina nella risoluzione delle controversie dell’Asia centrale e occidentale probabilmente rimarrà deluso nel breve periodo. L’atteggiamento altalenante nei confronti dell’Iran è una prova della ‘diplomazia dell’equilibrio’ che la Cina cerca di portare avanti. È pur vero che non potrà continuare a tirarsi indietro in eterno. Già ora “tutti chiedono a Pechino”, che sarà presto o tardi costretta dal suo crescente potere economico e geopolitico ad assumere delle posizioni sempre più impegnative.
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