Mehdi Mahmoudian, giornalista attualmente recluso nella prigione di Rejaei Shahr con l’accusa di attentato alla sicurezza nazionale, da sempre si occupa di diritti dei detenuti. A lui si deve ciò che sappiamo ad esempio riguardo le terribili condizioni dell’ormai chiuso carcere di Kahrizak.
Malgrado la sua attuale condizione, Mahmoudian riesce a raccontare ugualmente i disagi della prigione in cui è rinchiuso, dove vige uno stato di profondo malessere e sofferenza. Così si viene a conoscenza, tra le tante, della storia di un detenuto appena operato: “Dopo 16 anni è stato in grado di abbracciare un bambino. Dopo anni di battaglie con una malattia cardiaca, è stato mandato in ospedale per un’operazione a cuore aperto. Sono andato a visitarlo nella sua cella. Mi aspettavo che parlasse del suo difficile intervento chirurgico e delle sofferenze e dell’agonia che ha sopportato durante i 30 giorni di ricovero, ammanettato e legato. E invece, con una gioia indescrivibile, mi ha raccontato di aver abbracciato un bambino. Ha detto che dopo 7 anni ha visto un’auto da vicino. E con tristezza ha aggiunto: “Ringrazio dio che prima di morire mi ha fatto vedere ancora una volta da vicino un albero”.”
Sofferenza psicologica unita a sofferenza fisica, causata anche e soprattutto dall’inadeguatezza della struttura carceraria in questione: “Nonostante sia stato costruito con una capacità di meno di un centinaio di persone, attualmente ospita circa 5000 prigionieri. Sembra incredibile, ma è vero. Più di 1100 di loro sono condannati a morte”, racconta il giornalista, che continua: “Oggi, 23 ottobre, giorno in cui sto scrivendo questo rapporto, ci sono 1117 persone nel braccio della morte, 734 dei quali condannati alla ghesas (pena capitale che può essere commutata in grazia dai familiari della persona assassinata) e gli altri 383 sono condannati a morte, 14 dei quali lì per accuse politiche o di attentato alla sicurezza nazionale”.
Non è difficile immaginare dunque la precarietà di questa vita, resa ancora più insostenibile dagli svarioni di un organo giudiziario che anziché semplificare, complica le cose: “Per quanto riguarda le persone condannate alla ghesas, questi, oltre a dover attendere la propria esecuzione per anni, di volta in volta sono convocati per la conferma della sentenza e, come richiesto dalla procedura, le persone sono messe in isolamento 24 ore prima di essere portate alla forca. Ma, per varie ragioni, l’esecuzione viene rimandata e loro vengono rispediti in cella. Questo può accadere due, tre, quattro o anche cinque volte. Prima di finire dietro le sbarre, stavo seguendo il caso di una di queste persone e stavo cercando di ottenere la commutazione della sua sentenza. Dopo che la sua esecuzione è stata rimandata diverse volte, nel corso di una telefonata quest’uomo mi ha detto: “Per l’amor di dio, fa che mi uccidano. Ho ucciso una volta, ma mi hanno portato di fronte alla forca per 13 volte. Questa è tortura”.”
I tempi sono evidentemente molto lunghi, Mahmoudian parla di cinque anni come durata minima della prigionia nel “braccio della morte”. Cinque anni che possono dunque anche diventare molti di più, in un crescendo di tensione e di malessere che accompagna ogni detenuto punendolo e tormentandolo così non una, ma decine di volte.
Gioacchino Andrea Fiorentino
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