Espulsioni rom, Corte europea condanna l’Italia: “Violato il diritto all’unità famigliare”

LA CONDANNA. L’Italia è stata condannata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo per “violazione del diritto all’unità famigliare” nel processo riguardante la vicenda di Nevresa Hamdovic. Nevresa, nata nel 1977 in Bosnia-Erzegovina, vive in Italia dal 1988, da quando lei, alla giovane età di 13 anni, e la sua famiglia si trasferirono assieme ad altre 44 famiglie rom nel campo nomadi di via Salvini a Roma.

Nel corso della sua permanenza in Italia Nevresa si è sposata con Mammut, possessore di un regolare permesso di soggiorno, e ha dato alla luce cinque figli che hanno frequentato tutti regolarmente la scuola dell’obbligo. Ma la signora Hamdovic ha avuto anche alcuni problemi con la legge: nel periodo della sua vita passato in Italia era stata accusata di furto e impiego di minore in accattonaggio, reati che hanno pregiudicato la sua situazione.

UN INCIDENTE FATALE. Dal 1995, a seguito di un censimento, Nevresa e la sua famiglia compaiono di diritto nella lista dei cittadini residenti nel comune di Roma e nel 1996 Nevresa ha ottenuto dalla Questura di Roma un permesso di soggiorno che purtroppo, dopo essere stato rinnovato per due volte, è andato incenerito, insieme al suo passaporto, durante un incendio verificatosi nella sua abitazione.

La situazione di Nevresa si complicò nel luglio 2005 quando durante una trasferta con la famiglia ad Alba Adriatica, in provincia di Teramo, la polizia li ferma per un ordinario controllo. La signora Hamdovic porge al poliziotto dei documenti scaduti, in assenza del suo passaporto e del permesso di soggiorno precedentemente andati distrutti, spiegando alle forze dell’ordine la situazione. Le autorità competenti della Bosnia-Erzegovina infatti non erano in grado di rilasciare un nuovo passaporto a causa degli sconvolgimenti interni al paese durante la dissoluzione della Repubblica della Jugoslavia.

Gli agenti di polizia però non credono alla versione di Nevresa che viene coattivamente separata dalla famiglia conducendola alla prefettura di Teramo dove il prefetto firma un ordine di espulsione della signora disponendo inoltre il suo trasferimento nel Centro di Permanenza Temporanea di Ponte Galiera a Roma

L’AIUTO LEGALE. In aiuto di Nevresa arriva però l’avvocato Luca Santini, legale dell’associazione Progetto Diritti, che il 2 settembre 2005 presentò un ricorso alla decisione del prefetto di Teramo alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo chiedendo la sospensione dell’ordine di espulsione che viola l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte di Strasburgo ha immediatamente ordinato alle autorità italiane di sospendere l’espulsione che però non rispettò questa disposizione: il 6 settembre 2005 le autorità italiane procedettero all’espulsione della signora Hamdovic che fu trasportata coattivamente a Sarajevo.

Il 9 novembre 2006, dopo 14 mesi di permanenza a Sarajevo a seguito di una domanda di congedo speciale al Ministero dell’Interno per tornare in Italia presentata dal legale della signora Hamdovic, Nevresa può riabbracciare il marito e i figli. Solo nel 2011 il Ministero degli Esteri hanno concesso alla signora Hamdovic un permesso di soggiorno valido fino al 14 dicembre 2013.

LA CONFERMA DELLA CORTE. A porre fine a questa storia ci ha pensato la corte di Strasburgo in data 4 dicembre 2012 confermando la violazione da parte delle autorità italiane dell’articolo 8 della convezione europea dei diritti umani predisponendo inoltre il versamento di 15000 euro a titolo di risarcimento per i danni morale e di 2000 euro per le spese legali. L’articolo 8 della Convenzione recita infatti: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, proprio domicilio e della propria corrispondenza.” e che “Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge”.

L’associazione Progetto Diritti, che a seguito la vicenda anche dal punto di vista legale, commenta la sentenza della Corte Europea definendola: “una sentenza che rende giustizia a una donna trattata in modo inumano dalle istituzioni italiane e che da una parte riafferma i diritti fondamentali dei migranti come di ogni cittadino e dall’altra la disumanità delle prassi seguite in materia di immigrazione”.

Stefano Zambon


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