Ho incontrato Yakub varie volte a casa sua, nel centro occupato “Selam”, e abbiamo avuto modo di parlare di politica, di religione e ognuno delle proprie tradizioni. Quello che all’inizio sembrava solo un lavoro da portare a termine era diventato un simpatico appuntamento di dialogo e di arricchimento culturale (e a volte anche culinario, vista la grande ospitalità di cui sono stato fatto oggetto). Yakub ha deciso di raccontarmi la sua incredibile storia.
Intervista e foto di Marco Casini – GraffitiPress
“Mi chiamo Yakub Abdelnabi, sono nato in Darfur, in Sudan. Ho vissuto lì fino al 2003, poi è cominciata la guerra tra il popolo darfuriano e il governo. Noi abbiamo chiesto uguali diritti per tutti cittadini: diritto allo studio, sanità, ecc… Il governo si è opposto a questo. Vari gruppi di oppositori si sono ribellati al governo e così è cominciato il conflitto.
Io non ho voluto combattere, ho pensato che sia i morti della nostra fazione che quelli del governo erano tutti sudanesi. Non ho voluto combattere contro i miei fratelli. Così sono scappato in Libia. E’ stato un viaggio per niente facile, durato tre o quattro giorni attraverso il deserto del Sahara. Io sono fortunato ad essere arrivato: diversi amici e compaesani non ce l’hanno fatta.
Una volta in Libia ho cominciato l’attività politica: nel 2003 abbiamo fondato un movimento che si chiama Sudan JEM, che significa “Giustizia ed Eguaglianza Sudanese”. Abbiamo fatto conferenze, abbiamo fatto arrivare sudanesi non solo dal Darfur e abbiamo dialogato. Poi, nel 2005, il governo libico e quello sudanese si sono accordati per far tornare in Sudan tutti i darfuriani. Per questo motivo sono scappato dalla Libia via mare fino a Lampedusa, altri tre giorni di viaggio circa, veramente duri, più duri che nel deserto, ma meglio che morire.
Da Lampedusa sono arrivato a Foggia, dove sono stato quasi tre mesi. Mi hanno riconosciuto lo status di rifugiato. Ottenuti i documenti mi hanno suggerito di andare a Roma. Quando sono arrivato è stato difficile, perché non conoscevo nessuno e non conoscevo la città. Sono stato alla Caritas, dove ho chiesto un posto per dormire. Dopo circa due settimane me ne hanno dato uno in un centro accoglienza ad Arco di Travertino.
Sono stato là per tre mesi, ma c’era qualche restrizione: mi facevano uscire alle 8 del mattino e rientrare alle 18, anche se stavo male o fuori c’era brutto tempo, o non avevo da lavorare. Tutti i giorni tranne la domenica. C’erano dei ragazzi bravissimi, però c’era anche una persona più anziana che mi trattava male; non capivo bene l’italiano, ma capivo che mi insultava. Mi avevano detto: “Se c’è qualcuno razzista nei tuoi confronti, diccelo che noi lo allontaneremo”. Ma ho deciso di andare via io: ho pensato che questa persona, italiana, lavorando in quel centro prima che arrivassi io, guadagnava qualcosa per sé e la sua famiglia, e a causa mia la sua vita avrebbe potuto subire un danno. Ho detto che avevo trovato lavoro, anche se non era vero e ho vissuto tre mesi per strada.
Quindi ho trovato un’associazione che si chiama “Action”, che si occupa di aiutare rifugiati e immigrati. Mi sono iscritto, ho partecipato alle loro assemblee e attività e in seguito mi hanno fatto entrare a via Arrigo Cavaglieri, in un palazzo di proprietà dell’Università di Tor Vergata.
Dopo circa una settimana la polizia ci ha fatto sgombrare e siamo stati per strada. In quel periodo faceva freddo e pioveva. Siamo rimasti un mese in tenda. Dopo un mese, tante manifestazioni e un incontro col sindaco Walter Veltroni, ci hanno fatto rientrare, seppur “gestiti” da una cooperativa. Noi abbiamo chiesto di non vivere in regime di centro accoglienza, per noi troppo restrittivo, e ci è stato risposto che non potevamo gestire il centro da soli senza un’associazione che lo facesse. Allora abbiamo fondato una nostra associazione, l’abbiamo chiamata Selam.
Il primo presidente, dal 2006 al 2008, è stato un eritreo di nome Mussai. Ha lavorato benissimo per noi, ma dopo il 2008 ha lasciato l’associazione, non potendo continuare con questo incarico, essendo un prete. A quel punto noi eravamo cresciuti ed eravamo in grado di gestirci da soli. Dal 2008 sono diventato presidente.
Dal 2007 fino al 2012 siamo stati qui senza residenza. Ora è di nuovo riconosciuta la residenza qui ma molti, da rifugiati, devono ricominciare da zero l’iter per il riconoscimento della cittadinanza. Io personalmente ho perso 5 anni di residenza, devo cominciare daccapo. Gli unici a non averci lasciato soli sono le persone dell’associazione “Cittadini del Mondo”, che prestano per noi servizio sanitario. Per il resto gestiamo questa casa con la nostra associazione: abbiamo un comitato, abbiamo fatto lavori di ristrutturazione, che periodicamente devono essere ripetuti, perché siamo quasi 100 persone per ogni bagno, e questo è un problema. Abbiamo anche dovuto risolvere un problema relativo all’elettricità: una volta d’inverno siamo rimasti tre mesi senza corrente, era tutto freddo, qui ci sono anche bambini, bisognava dormire con tante coperte ed era difficile farsi una doccia più di una volta a settimana, perché l’acqua era proprio gelata. Ora, grazie a Dio, abbiamo risolto, ma il nostro vero problema è che nonostante ci sia l’associazione, dal 2006 fino ad oggi, non abbiamo avuto nessun aiuto da nessuna parte, quando serve cerchiamo di raccogliere soldi tra noi o facciamo per conto nostro i lavori di manutenzione.
La nostra vita è così, speriamo che chi governa senta la nostra voce: noi qui siamo fuggiti dai nostri paesi in guerra, veniamo dal Darfur, dalla Somalia, dall’Eritrea e dall’Etiopia. Siamo persone che hanno dovuto lasciare la vita di prima e qui devono ricominciare da zero. Io chiedo a chi governa: perché, se c’è qualche progetto, non farlo direttamente con noi? Siamo noi ad aver bisogno, siamo noi a soffrire, siamo noi a sapere di cosa abbiamo bisogno. Dal punto di vista dell’integrazione qui in Italia non va bene.
Integrazione cosa vuol dire? Integrazione vuol dire avere un lavoro, trovare amici italiani, sistemare la propria vita. Non si può sistemare la propria vita senza un lavoro. A me non piace questo posto perché siamo 800, proprio tantissimi. Però dove vado senza un lavoro? Come faccio a prendere in affitto una casa? Non posso!
Sento di essere un peso per l’Italia, perché quando vado in una struttura sanitaria e mostro i miei documenti di disoccupazione per esenzione ticket, anche gli Italiani mi trattano male. Si chiederanno: perché questo giovane di 30 anni non lavora? E pensano che loro pagano per me. Certo, loro pagano per me perché lavorano, pagano le tasse, pagano le cure mediche, mentre io prendo le medicine gratis. Perché? Perché non ho lavoro.
Se io avessi un lavoro potrei pagare le tasse, potrei anche aiutare l’Italia! Qui ci sono 800 persone di cui solo il 10% lavora, sulla via Collatina c’è un’altro posto così dove sono ancora più numerosi. Noi non vogliamo cose grandissime, vorremmo avere un po’ di formazione e poi un lavoro. Se c’è il lavoro c’è integrazione: affitto una casa, pago le tasse, cammino con dignità!
Quando trovo un controllore sull’autobus e non ho il biglietto, anche se mostro i documenti per pagare la multa in un secondo momento, fa sentire a tutti che io non ho il biglietto. Ma io sono una persona! Non pensano che io possa provare vergogna, che io sono come loro. Io qui in Italia non sento di vivere come una persona: le persone hanno diritti, io non ho nessun diritto.
Io ho girato in tutta Europa, ho visto come sistemano le persone in Francia, Svizzera, Svezia, Norvegia, Inghilterra, Irlanda, Danimarca. Ho visto perché ogni sette immigrati, in Europa, c’è un rifugiato sudanese, tutti fuggiti dal Darfur e quando ho parlato con loro, ho visto che la loro vita è proprio cambiata. Invece qui tu pensi: oggi che cosa mangio? Abbiamo la lotta per il pane.
Ancora chiedo: come si può sistemare la nostra vita? Siamo intelligenti, educati, abbiamo studiato al nostro paese, il nostro unico problema è essere fuggiti dalla guerra. Ora tutti cercano di andare via dall’Italia ma vengono rimandati indietro per la legge di Dublino, non posso chiedere di andare in un altro paese perché ho già chiesto rifugio in Italia… Quindi siamo così, non abbiamo sogni, non abbiamo futuro… Il nostro futuro è buio.”
Qualche mese dopo questa intervista Fatima, la moglie di Yakub, è riuscita ad arrivare in Italia e, a fronte del ricongiungimento, sono cresciute le difficoltà per le spese di sostentamento. Imparando a conoscere Yakub ho capito che il popolo sudanese è un popolo orgoglioso, che chiede lavoro, ma non elemosine, e in quest’ottica penso che abbia deciso con la moglie di cercare fortuna all’estero. E’ “ripartito”. Ha lasciato l’Italia a fine gennaio e gli auguro di cuore di trovare il suo “rifugio”.
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