Immigrazione e lavoro, il cambio di rotta dell’Australia

di Eleonora Dutto, corrispondente dall’Australia

Pochi paesi hanno aperto le proprie porte agli stranieri nella loro storia come l’Australia. Nata nel 1770 come colonia penale inglese, dal momento in cui i coloni britannici hanno intrapreso il cammino per la costruzione della società australiana il Paese ha aperto le sue porte a uomini e donne da ogni parte del mondo, per popolare quelle terre lontane e renderle floride.

Il rapporto sproporzionato tra la vastità del territorio e la scarsità della popolazione ha costretto i governi che si sono susseguiti negli anni a porre la questione dell’immigrazione come una delle priorità per lo Stato federale australiano, specialmente nel secondo dopo guerra a causa delle perdite subite.

 È su queste basi che si è formato un sistema aperto all’immigrazione, con numerosi ed eterogenei permessi di soggiorno per gli stranieri che intendono trasferire la propria vita nell’isola più grande dell’emisfero meridionale (permessi che conducono all’ottenimento della cittadinanza tanto più si lavora e si investe nel Paese).

Negli ultimi anni, con l’inasprirsi della crisi internazionale, l’ingresso degli stranieri è aumentato considerevolmente e in tempi brevi, facendo mettere in discussione la storica apertura all’esterno. Se l’effetto della crescita della competizione lavorativa tra gli stranieri – a livello di impieghi non professionali – ha portato alla riduzione dei loro salari in poco tempo, oggi il dibattito inizia a muoversi nella politica nazionale riguardo le conseguenze che toccano direttamente i cittadini australiani.

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 L’argomento è infatti periodicamente presente sui quotidiani, con opinioni divergenti. Solo lo scorso 23 febbraio l’ Herald Sun ha pubblicato un’importante dichiarazione del Ministro dell’Immigrazione Brendan O’Connor sulle criticità della questione.

Il cuore del problema toccato dal Ministro riguarda il visto 457 “Temporary Work Skilled, ovvero quello che permette ai datori di lavoro australiani di impiegare stranieri in settori professionali, laddove quelle competenze non sono rintracciabili a livello locale. Secondo O’Connor, il numero di tali visti è passato da 70.000 a 100.000 negli ultimi due anni, in aree nelle quali tale carenza di risorse non è in verità riscontrabile.

Come questo sia potuto succedere è semplice: il visto in questione prevede la possibilità di usare le risorse straniere a stipendi più bassi di quelli dovuti ai dipendenti australiani, che hanno così perso potere contrattuale. Il Ministro dell’Immigrazione ha denunciato il comportamento di numerosi datori che hanno abusato di questo mezzo, falsificando le documentazioni necessarie per assumere migliaia di lavoratori stranieri sottopagati ed abbassare così i loro costi d’impresa, deliberatamente riducendo il livello occupazionale della popolazione locale.

 Date queste rilevazioni, il Ministro ha dichiarato di voler proporre una politica di immigrazione più rigorosa e più attenta agli interessi della popolazione nazionale. A tale scopo O’Connor ha proposto: il potenziamento delle investigazioni sui datori che assumono stranieri, una maggiore verifica della reale carenza di competenze settoriali che giustifichino la richiesta di lavoratori dall’estero, l’obbligo di offrire una formazione professionale per coprire la carenza di cui un’azienda necessita, il vincolo di un fluente livello di inglese per gli stranieri impiegati e l’aumento del salario medio per gli stranieri da 180.000 dollari a 250.000 dollari, riducendo la distanza dagli stipendi australiani.

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 La crisi europea comincia ad intaccare anche il sistema australiano? Quello che si può dire oggi è che il vento sta cambiando.


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