di Marco Marano
“Nel mio paese avevo un buon lavoro e guadagnavo anche bene, mi occupavo di commercio per una grande azienda che forniva i negozi di prodotti alimentari. Me ne sarei rimasta lì ben volentieri, se non fossi stata costretta a scappare…” Laura ha un viso dolce ed espressivo, quando inizia a raccontare la sua storia di migrazione, una storia del nostro tempo, che cercheremo di comprendere insieme alle voci di altre due donne: Veronica e Ilaria, rispettivamente responsabile e tutor del Ciofs Emilia Romagna, una organizzazione che si occupa di orientamento e formazione per inserire i migranti nel mercato del lavoro. Le loro parole risuonano nel contesto di uno scenario abbastanza sconfortante che l’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), ha fotografato nel rapporto uscito nel febbraio scorso, su una indagine svolta nel 2012: in Italia, nel mercato del lavoro, due persone su tre vengono discriminate per motivi etnici. Così, in vista dell’imminente giornata internazionale contro le discriminazioni razziali del 21 marzo, un dato sembra essere abbastanza certo: l’Italia è un paese razzista.
“Se dovessi dire quali sono le cose che più mi hanno colpito da quando sono in Italia – sottolinea Laura – direi sicuramente il sentirsi diversi per la pelle nera e il dover essere costretta a fare lavori di tutti i generi, che non sono quelli per cui ho studiato o che fanno parte del mio percorso”. Laura è camerunense, ha ventinove anni e si è laureata in Marketing all’Università di Douala, parla francese, italiano e inglese, fuggita dal suo paese perché perseguitata per motivi politici, ha avuto riconosciuto l’asilo politico e da tre anni vive a Bologna. Da quando è in Italia ha fatto una infinità di corsi: estetista, assistente familiare, ristorazione, ha lavorato in diversi alberghi alle pulizie delle camere, nelle mense aziendali come lavapiatti, in alcune aziende sempre per fare le pulizie, tra borse lavoro, stage e quant’altro. Oggi lavora a chiamata per l’agenzia Adecco, che conoscendola come una persona affidabile e con spirito di sacrificio, cerca di inserirla quando può. Con i pochi soldi che guadagna deve pagarsi l’affitto, che non è eccessivo poiché inserita in un progetto d’inclusione abitativa, le utenze, la spesa, i costi del quotidiano e la scuola delle due figlie rimaste in Camerun con la nonna…
“Quando ho fatto lo stage per il corso di estetista – racconta Laura – la padrona del centro si era affezionata a me, era una brava persona, sincera. Dopo lo stage le chiesi se avevo la possibilità di essere assunta, e lei, dispiaciuta, mi disse che le sarebbe piaciuto assumermi ma non poteva perché avrebbe perso delle clienti che non volevano farsi toccare da una ragazza nera. Ma tutto sommato a me è andata bene (sorride mentre lo dice). Una mia amica – continua Laura – fu chiamata da un’agenzia come badante per una coppia d’anziani, lavorò tre mesi in quella casa. Un giorno arrivò il genero della coppia, dopo che per tre mesi né lui né la moglie si erano fatti vivi. Qualcuno gli aveva detto che a badare ai due anziani c’era una ragazza nera… Le sue parole, quando ha visto la mia amica, sono state proprio che non poteva credere ai suoi occhi e la mia amica venne licenziata, tra le scuse della coppia di anziani che la volevano… Capisci perché sono stata fortunata? – conclude Laura – A me ancora non è successo di essere assunta e poi licenziata a causa del colore della mia pelle, non mi hanno assunta direttamente, forse è meno umiliante…”
“Nella nostra esperienza con le aziende bolognesi – afferma Veronica – non emergono chiaramente degli atteggiamenti di natura razzista, certo qualcuno ogni tanto ci chiede solo italiani ma non sono tanti. Oppure altri ci chiedono di non inserire persone di etnie differenti poiché in quei casi spesso esplodono conflitti, prevalentemente tra asiatici e africani. La vera chiusura che noi registriamo è nei confronti delle ragazze islamiche che portano il velo, per cui in quei casi l’inserimento nel mercato del lavoro è estremamente difficile, considerato che i settori privilegiati dove poter inserire ragazze sono le OS e le pulizie. Poi rimane poco…”
Il Ciofs lavora prevalentemente con bandi pubblici tra provinciali, regionali e ministeriali, che finanziano corsi di orientamento e formazione, che si concludono con stage in aziende del territorio che possono fare da ponte verso il mercato del lavoro, sia nella direzione di una esperienza professionalizzante, che per la possibilità di un inserimento stabile nella azienda dove è stato svolto lo stage. “Quando cerchiamo delle aziende per gli stage – sottolinea Ilaria – il nostro intento è di privilegiare quelle che ci danno una certa sicurezza per un inserimento nell’organico del personale dopo lo stage. Certo, c’è da dire che la crisi economica è la motivazione più diffusa nel sottoscrivere i contratti, poi è chiaro che ci sono altre variabili come la lingua o l’esperienza in quel settore”.
Ma ci sono altri temi che emergono sullo sfondo della cultura discriminante di un paese come l’Italia, che s’intrecciano tra loro. C’è il tema che riguarda i cosiddetti profili bassi, ad esempio, cioè i lavori che gli italiani non vogliono più fare: metalmeccanica, edilizia, facchinaggio, magazzini merci. Ma anche il tema che concerne la crisi di vocazione dei mestieri artigianali che in Italia stanno scomparendo e, considerato che i migranti sono spesso portatori proprio di quelle di abilità artigianali, nessuna strategia di rete o di sviluppo locale viene messa in atto per incrociare domanda e offerta, se non isolati progetti di singoli enti, come l’Interlab (Laboratorio di mestieri e di impresa) destinato a cittadini non comunitari, promosso dalla Provincia di Firenze insieme con Associazione Progetto Arcobaleno ONLUS e Camera di Commercio di Firenze. “Per i profili bassi – osserva Ilaria – i migranti sono ben accetti, e se sono in età di apprendistato spesso hanno molte possibilità di essere assunti con quello specifico tipo di contratto. Certo, si tratta di operai generici in ambito metalmeccanico o edilizio. Questa è una delle poche reali situazioni dove si possono inserire le persone di cui ci occupiamo.”
L’assenza di una visione strategica e di politiche su cui si costruisce un sistema di incrocio tra domanda e offerta nel mercato del lavoro è forse il gap più profondo, ma che purtroppo non riguarda soltanto i migranti ma tutta la popolazione attiva italiana, al di là dei risultati apocalittici della crisi economica; basti osservare il ruolo giocato dai Centri per l’impiego, che non riescono a svolgere nessuna funzione sociale: “Sono reti fittizie quelle dei centri per l’impiego, – afferma Veronica – a noi non ci viene proprio in mente di coinvolgerli perché sappiamo che lasciano soli i nostri operatori, poiché oltre a svolgere funzioni burocratiche con il libretto di lavoro, non riescono a fare: sono scatole vuote…”
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Complimenti, questo post ha davvero stimolato il mio interesse.