di Ilaria Bortot
Afghanistan. O meglio, Herat. Che non è proprio sempre la stessa cosa. La mia dimora per i prossimi giorni sarà Camp Arena, una delle basi italiane presenti sul territorio, sede del comando della Region West di ISAF.
Appena scesa dall’aereo, la prima sensazione che mi ha colpito è stata quella di un cielo polveroso. Una sensazione che non mi ha più abbandonato. Qui la polvere diventa parte di te fin da subito: poco fanno le kefie davanti alla bocca, gli occhiali da sole, la faccia bassa… Il vento tu entra dentro e con lui, la sabbia. Capelli, narici, tasche, mani… Pelle. E polvere.
Prima di raccontare tutto quello che ho visto da un punto di vista più giornalistico, voglio dire quello che mi resterà per sempre dentro come persona.
Gli occhi dei bambini, il loro sguardo fiero, quasi arrogante. La loro voglia di riscatto. La testa alta e lo sguardo dritto verso l’obiettivo, una finta timidezza e il più dolce dei sorrisi.
Le bambine, lontane. Sedute su quel muretto, rannicchiate, mi hanno lasciato dentro la voglia di raggiungerle e il rammarico di non averlo potuto fare. Anche loro, laggiù, avranno sorriso, scherzato… Guardato verso di noi incuriosite.
Lo sguardo di un militare che di militare ha solo la divisa ma che è stato capace di parlare di tutto anche stando in silenzio.
Le mimetiche, che nascondono uomini molto diversi tra di loro. Storie di vita vissuta che li renderebbero meno lontani se solo si riuscissero a raccontare. Vite che vanno oltre, fatte di famiglie, di sacrifici, di ideali e di bandiere, di particolari che troppo spesso non vengono visti. Alcuni più valorosi di altri, alcuni più umani di altri. Alcuni dimenticabili. Altri che, solo parlando, sono in grado di farti visitate mondi lontani e bellissimi. Piccoli pezzi di vita vissuta, umiltà nel raccontare e onestà nei dettagli.
Tutti lì per un qualcosa che sarebbe bello riuscire a scoprire ad uno ad uno.
Le stelle… Alte in cielo. Orione, protettiva come sempre e l’Orsa maggiore, rassicurante e presente, punto cardine di qualunque viaggiatore. Una luna in grado di illuminare una base intera, che di notte appare ancora più immensa, e le luci piccole e rosse, da ‘pista da atterraggio’, che vengono usate quando lei nn c’è.
Una stanza condivisa con qualcuno molto diverso da te: pochi giorni non ti permettono di conoscere davvero una persona. Sacco a pelo, spazzola, carta igienica e battute sono tutto quello che hai e, spesso, che resta. Ma a volte, semplicemente, il pensare che se avessi bisogno potresti dire qualcosa e sentirti capita, è abbastanza.
GIORNO 2: visita al carcere femminile di Herat
GIORNO 3: intervista alla direttrice del Dowa
GIORNO 4: intervista a Maria Bashir
Profilo dell'autore
- Dal 2011 raccontiamo il mondo dal punto di vista degli ultimi.
Dello stesso autore
- Asia & Oceania22 Dicembre 2024Yasuke, il samurai africano che stupì il Giappone del XVI secolo
- Europa22 Dicembre 2024Come i nazisti si appropriarono del nudismo socialista per veicolare il mito della razza ariana
- Nord America21 Dicembre 2024“Uccidi l’indiano, salva l’uomo”: La storia dimenticata dei collegi per i nativi americani
- Asia & Oceania21 Dicembre 2024Wu Zetian, l’imperatrice che riscrisse le regole del potere in Cina
[…] mio secondo giorno ad Herat ha in programma la visita al carcere femminile. Ad accompagnarmi, oltre i ragazzi della scorta, […]