“Il carbone uccide”. Nella querelle Enel-Greenpeace i giudici danno ragione agli attivisti

Tutto è iniziato un anno fa, con una serie di dati diffusi su internet: le centrali a carbone Enel provocano un morto al giorno. Un’operazione di controinformazione, promossa da Greenpeace e considerata, dal colosso dell’energia, una “forma di attivismo che va ben oltre la legittima manifestazione del pensiero”. Immediato il ricorso in tribunale che oggi, a distanza di un anno, è stato respinto dai giudici di Milano.

Dunque, stando al disposto dei magistrati, la libertà di critica rivestirebbe un ruolo predominante rispetto al diritto industriale: merito degli interessi tutelati, salute e salvaguardia ambientale, che mirano a proteggere la collettività.

E proprio la necessità di informare consumatori e cittadini sui rischi legati alla diffusione degli impianti a carbone, aveva spinto, un anno fa, Greenpeace a diffondere dati inquietanti: circa 366 morti l’anno (uno al giorno) causati delle emissioni in atmosfera delle centrali della compagnia. Inoltre, 460 morti premature nell’anno 2009 associabili all’attività della società, per un totale di circa 2,4 miliardi di euro di danni.

L’ Enel, partendo da questi dati, aveva immediatamente trascinato in tribunale Greenpeace, sostenendo la tesi della lesione arrecata dal report della Onlus e assumendo come lesive le iniziative intraprese dagli attivisti. La questione era, poi, finita sulle scrivanie dei giudici della sezione in materia di impresa del Tribunale di Milano. Dopo un anno, la decisione: il rigetto dell’istanza dell’Enel.

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Tuttavia, nonostante il colpo inferto dalla magistratura, la società non si era fermata, decidendo di giocarsi la carta della tutela del diritto industriale e commerciale: stando ai legali dell’ex gruppo pubblico, l’uso e la riproduzione non autorizzata del suo marchio, finito su alcune finte bollette e su una finta comunicazione che annunciava l’abbandono, da parte di Enel, del carbone, era improprio e diffamatorio.

Da qui, la richiesta di risarcimento del danno, quantificato per un totale di pochi milioni di euro.

Anche questa richiesta, tuttavia, è stata rigettata, con una motivazione inequivocabile: non si può tappare la bocca alle Onlus, nemmeno paventando il rischio di uso improprio del marchio, qualora si tratti di azioni mirate alla salvaguardia di interessi collettivi. A sostegno dei giudici di Milano, l’art. 21 della Costituzione, citato, e la richiamata salvaguardia della libertà di manifestazione del pensiero.

Tra l’altro, Greenpeace non è affatto nuova a questo genere di iniziative: già in passato, sia in Italia che all’estero, molte campagne erano state condotte utilizzando espressamente i loghi aziendali. Una strategia che, dunque, non renderebbe affatto illecita l’informazione promossa dagli attivisti.

A seguito della sentenza, sono giunte le dichiarazioni del direttore di Greenpeace Italia, Giuseppe Onufrio:

“Gli argomenti usati da Enel non stavano in piedi, da nessun punto di vista. Questa sentenza ribadisce che il diritto di critica è inalienabile e che l’uso di loghi aziendali in campagne di critica con motivazioni fondate è legittimo”.

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La sentenza dei giudici di Milano, però, non chiude, di fatto, le pendenze tra l’Enel e Greenpeace: queste sono, infatti, ancora una decina. Tra le altre, la causa sui cambiamenti climatici causati dagli impianti più inquinanti, che sta costringendo una trentina di attivisti a difendersi in processo per una manifestazione svoltasi a Porto Tolle. I fatti risalgono al 2006.

Emilio Garofalo


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