Siamo a Beita, un villaggio palestinese vicino a Nablus. Il 16 agosto 2013, alle 10 del mattino, le forze di occupazione israeliane lo invadono, bloccandone ogni via di uscita fino alle 19.
Con l’uso di proiettili d’acciaio rivestiti di gomma e lacrimogeni, le truppe hanno obbligato gli abitanti ad evacuare il Paese per poter razziare all’interno delle loro abitazioni. Un ragazzino di quattordici anni è stato gravemente ferito ad una gamba, ma gli è stato impedito il trasporto in ospedale. Soccorso dal medico del villaggio, per altro senza mezzi a disposizione, sta rischiando l’amputazione dell’arto. Al suo arrivo in ospedale, in tarda notte, l’infezione si era già diffusa. I genitori non hanno voluto darci il suo nome, ma ci hanno detto che ringraziano Dio che almeno il loro figlio è vivo.
Abdel Aziz, di diciannove anni, al momento del raid lavorava nel negozio di suo padre; ha cercato di nascondersi salendo sul tetto della casa. Un soldato lo ha notato e per questo, dopo essere stato violentemente percosso, è stato arrestato.
Amar Yousef, di venti anni, stava preparando con la famiglia il matrimonio della sorella; testimone del ferimento del ragazzino quattordicenne, è stato arrestato mentre tentava di andare in suo aiuto.
Mazen Dweikat, arrestato perché corso in aiuto degli altri ragazzi arrestati.
Tutti e tre si trovano nella base militare di Huwara; per almeno tre settimane non hanno diritto ad assistenza legale, né a ricevere visite da famigliari.
Non è la prima volta che questo accade, anzi, continua ad accadere costantemente; ma, ci dicono gli abitanti, da quando sono ricominciati i colloqui di pace c’è stata una importante escalation delle violenze.
Un anziano, a cui qualche mese fa è stato ucciso un nipote, ci dice: “Non abbiamo pace, non abbiamo diritti, siamo trattati come bestie. Cerchiamo di tacere per vivere, ma nonostante tutto questo non serve a niente; loro ci voglio annientare per prendersi le nostre case, le nostre terre, le nostre vite.”
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