Le arance insanguinate di Rosarno

Un giornalista calabrese racconta Rosarno e i “celebri” fatti del 2010. Senza prescindere dal fattore principale, la dignità delle persone. Di Piervincenzo Canale

La mia prima immagine della “vita” degli africani a Rosarno  risale al dicembre 2008. A quel tempo c’era ancora la “cartiera”,
una fabbrica mai entrata in funzione dove dormiva una parte numerosa dei migranti, per la maggior parte dell’Africa occidentale.

Quel tardo pomeriggio, col freddo pungente e con l’umidità della campagna della piana di Gioia Tauro, ho visto le misere con-
dizioni di vita di chi lavora le terre italiane. Una miseria che si protrae da decenni, almeno per quanto riguarda la Piana. Nel secolo scorso, infatti, a vivere nelle condizioni in cui vivono oggi i niri erano gli italiani. Fin dal dicembre 2008 i migranti, e in particolare gli africani, erano oggetto di intimidazioni.

Pochi giorni prima del mio arrivo, un italiano aveva sparato a due ivoriani che tornavano a “casa”, alla cartiera. Episodi simili si sono ripetuti anche l’anno successivo. Fino ai famosi fatti del 2010. Di conseguenza, i giornali di tutto il mondo hanno scritto che Rosarno è una città razzista.

Vorrei sottolineare una cosa: non è stata un’esplosione estemporanea di rabbia, ma il frutto di una scelta politica o, forse, la mancanza di una scelta. Aizzate dalle televisioni che lanciavano allarmi sull’invasione degli extracomunitari, quelle che prima erano tranquille vecchiette si sono trasformate in vedette che, dall’alto dei palazzi, coadiuvavano la caccia allo straniero. La realtà, come sempre, è molto più complessa e non ha mai una faccia sola. Certamente c’è molta ignoranza e ci sono molti pregiudizi. Su tutti i fronti. Se a Rosarno, come del resto in molti centri periferici italiani, ci sono piccole teste calde che scimmiottano i comportamenti delle star nazionali (compresi i comportamenti razzisti), allo stesso tempo c’è una cittadinanza che si muove compostamente e che solidarizza con i migranti di qualsiasi nazionalità.

LEGGI ANCHE:   Salvate il patrimonio arbëreshë

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