“Golda ha dormito qui”, storie di case ed espropriazioni nella Palestina occupata

Persino Golda Meir, l’ex premier israeliano da cui il titolo del libro, ha abitato in una casa araba, ma è stata ben attenta a farne cancellare l’insegna in occasione della visita di una delegazione delle Nazioni Unite. La targa portava il nome inequivocabile “Villa Harun al-Rashid”, il califfo delle Mille e una notte.

Vincitrice del premio Viareggio col romanzo d’esordio “Sharon e mia suocera”, la palestinese Suad Amiry è tornata in Italia per presentare il suo nuovo libro “Golda ha dormito qui” e per la seconda volta è a Napoli – città che ama – dove, iniziando il suo tour di promozione Feltrinelli, ha incontrato il 31 ottobre il pubblico assieme a Donatella Mazzoleni, docente di Progettazione Architettonica alla Federico II ed autrice di “L’architettura come linguaggio di pace”.

Le due donne, le quali condividono non soltanto la professione ma anche l’approccio all’esistenza, si sono ritrovate a discutere assieme di due temi che nei Territori Occupati si intrecciano dolorosamente: abitare ed espropriare. Il pubblico è stato così trascinato nella struttura labirintica di un libro che si fa portatore delle storie personali di individui presentati finalmente nella loro intimità e non più soltanto come popolo schiacciato da una dramma politico; un libro che procede con un ritmo ossessivo secondo l’andamento tipico del sogno e che presenta il ricordo del passato come un’allucinazione.

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I protagonisti, infatti, tra cui la stessa Suad, sembrano affetti da disforia: dichiarati “proprietari assenti” delle loro case, abbandonate sotto i bombardamenti israeliani a partire dal ’48, non possono più farvi ritorno, se non col rischio di trovarsi faccia a faccia coi nuovi inquilini ebrei ai quali il governo ha consegnato i loro immobili, secondo una precisa politica coloniale che ne ignora volutamente l’esistenza se non quando si tratta di riscuotere le tasse. Persino Golda Meir, l’ex premier israeliano da cui il titolo del libro, ha abitato in una casa araba, ma è stata ben attenta a farne cancellare l’insegna in occasione della visita di una delegazione delle Nazioni Unite.

La targa portava il nome inequivocabile “Villa Harun al-Rashid”, il califfo delle Mille e una notte. Suad ha paragonato la situazione dei palestinesi, quasi del tutto sfollati, a quella dei neri in Sudafrica, degli indiani in America e degli aborigeni in Australia, mettendo da parte l’ironia che ha caratterizzato finora i suoi scritti per mostrare le conseguenze del suo trauma e quello di tanti altri, condensante in un sentimento di sradicamento perenne. La perdita del proprio focolare domestico conta molto più di quello della propria patria ed ha un impatto ben peggiore sulla psiche.

Nella Gerusalemme di oggi, divisa fra est ed ovest come potrebbe essere Napoli fra Vomero e Mergellina – dice Suad – si consuma ancora la tragedia quotidiana di chi, magari uscendo per fare la spesa, si ritrova a passare davanti alla casa che un tempo gli apparteneva, senza potervisi neanche avvicinare, e vi è un’intera generazione di palestinesi di cui mancano fotografie e ricordi, rimasti nelle case in cui sono più tornati e poi finiti chissà dove.


Profilo dell'autore

Annamaria Bianco
Giornalista pubblicista dal 2012 e dallo stesso anno vagabonda fra Europa, Medio Oriente e Nord Africa. Traduttrice, anche. Il cuore come il porto della sua Napoli, scrive per lo più di interculturalità e mondo arabo-islamico.

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