«Ho incontrato il paese del male», ha scritto Domenico Quirico circa i suoi cinque mesi d’inferno in Siria. Il terrore e la compassione, che ci ispira la sua terribile esperienza, non rendono meno inquietante la sua espressione, così come la sua conclusione: «La nostra storia è quella di due cristiani nel mondo di Maometto e del confronto tra due modi diversi: il mio, semplice, fatto di altruismo e di amore , e il loro, che è fatto di rituali».
Dominique Eddé su Liberation
tradotto da Shadi Fahle e Alessandra Raggi per Frontiere News
La metafora – «la terra del male» – non è una immagine nella mente del suo autore. Si tratta di una realtà che è la Siria. L’affermazione – ho incontrato il paese del Male – è una sciocchezza accompagnata da una negazione. Un’assurdità evidente perché “il paese del Male” non esiste né può esistere. Una negazione, perché attraverso questa travolgente scorciatoia, è tutta la Siria ad esser implicitamente condannata , ridotta dalla A alla Z a immagine dei suoi carnefici.
Possiamo capire che, dopo tante sofferenze, l’autore si sia lasciato andare. Non mi sembra meno pericoloso lasciar passare i suoi propositi sotto silenzio. Nel momento in cui il regime di Damasco riguadagna terreno in campo internazionale, e il popolo siriano è più che mai un ostaggio schiacciato in una tenaglia – forze di Assad da un lato, jihadisti e bande mafiose dall’altro – ridurre la Siria e la sua gente ad una sola ed unica parola – il Male – è inaccettabile.
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Anche se l’autore non intende così, la frase suona come un «lasciate perdere», sono tutti cattivi, tutti malvagi, tutti incapaci di umanità. Ciò che sottintende questa semplificazione, annunciata nella premessa, è terribile. Questa è una sentenza. Crea l’astrazione laddove la vita reclama ossigeno, invece di gas e di granate. Uccide la differenza. Pone la stessa maschera su milioni di volti. Lenisce a buon mercato gli spiriti che vogliono la pace della loro coscienza, a scapito della coscienza. Quirico ha incontrato il Male e ha avuto bisogno di dargli un nome attribuendogli un paese. Diciamo che è umano, ma è grave ed è sbagliato.
La natura del Male è proprio quella di non avere confini o paesi. Il paese del Male, se vogliamo fare una metafora, è la stoffa comune e degradabile di cui siamo fatti: è la specie umana. Ed è proprio questa cosa, questa indistruttibile primitiva crudeltà che è per noi così difficile da credere, fin dagli albori del tempo.
Pensare al Male ci obbliga a rimuginare tutto in una volta le sue origini storiche, sociali, familiari, così come il suo nocciolo duro: l’uomo che sfugge alla comprensione dell’uomo. Come un essere umano finisce per vedere negli altri che dei parassiti?
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Molte persone hanno cercato di capire, di massacro in massacro, questa cosa disgustosa che riguarda tutti noi. È nell’obbligo che ci impone questa domanda terribile il destino dei resti dell’umanità. Nulla ha il monopolio del male, nessuno del bene, nessuno della sofferenza. Invece di ingiunzioni del tipo «mai più», il pensiero, per sopravvivere, ha bisogno di scavare le ragioni del « perché sempre e ancora ciò?». L’autore vorrebbe proporre di soddisfare questo problema abissale offrendoci una contrapposizione, a malapena travestita, tra il Bene del mondo cristiano da una parte, e il male del «mondo di Maometto» dall’altra. E Treblinka, Sobibor, Auschwitz, Buchenwald, Dachau? E i campi di sterminio di Stalin? E la Cambogia, la Serbia, il Ruanda e il Congo? E ai confini della Siria, il Libano, da dove provengo, dove per quindici anni si sono succeduti orrori per orrori, dove le milizie cristiane non furono più delicate di quelle musulmane? La barbarie degli uni o degli altri, sistematicamente alimentate da potenze straniere, non ha fatto, che io sappia, tutti i libanesi dei barbari. Milioni di siriani dovrebbero, oltre alla loro solitudine e sofferenza, vedersi ora sottratto il loro ultimo diritto: quello di non essere confusi con gli autori della loro sofferenza?
La barbarie siriana ha una storia. Un tempo in cui il marciume ha trovato qualcosa di cui vivere, incrostarsi e perdurare. È stata sostenuta e rafforzata da potenti partner che non hanno avuto da ridire sia per come i prigionieri sono stati torturati nei sotterranei sia per i morti, a migliaia, sono stati sepolti di notte senza che i media siano stati coinvolti.
Il buon vecchio metodo di questo regime spregevole, lo conosciamo: far credere di esser più pericoloso di quel che rappresenta. Raffinare e variare le forme dell’orrore, affiancarle l’un l’altra, e poi faccia a faccia, in falsi duelli. In altre parole, terrorizzando e manipolando il terrore. Fabbricandosi dei nemici in grado di competere nelle atrocità che sono loro proprie, accogliendoli e denunciandoli nel medesimo tempo e quindi scoraggiando il desiderio di andare in aiuto dei nemici autentici: i resistenti presi tra due fuochi è abbandonati dal mondo. E, soprattutto, ancora e ancora, guadagnar tempo. Suscitare il settarismo per alimentare il fuoco e, quindi, la paura o l’odio di tutti contro tutti.
Quello che è stato tacitamente concordato dai poteri che hanno lasciato fare quando c’era ancora tempo per salvare gli affamati di libertà dalla trappola che è stata tesa per loro. E non aggiungere guerra alla guerra. È ‘vero che queste stesse potenze hanno degli amici ingombranti – sauditi, qatarini e altri – che armano e finanziano le milizie islamiste per pratiche e progetti spaventosi.
Da una parte o dall’altra, i professionisti della crudeltà in Siria sono figli di questo. Per «questo», intendo una degenerata combinazione di conflitti d’interesse più o meno complementari, sempre più intrecciati, inestricabili, che coinvolge tutti noi, in misura diversa, e che, in assenza di qualsiasi censura, qualsiasi diga, per fermare la confusione – vale a dire in assenza di Super-io – dovuta alla nascita di mostri sempre più numerosi.
Questo male, se si vuole valutare il grado di impotenza di coloro che lo dovrebbero combattere, è sulla buona strada per raggiungere sembianze formidabili di autonomia e di perfezione. Sta per rosicchiare tutto il Medio Oriente e, forse, il resto del mondo, visto per come è oramai contagioso. È anche sulla strada di influire pericolosamente sulle difese della democrazia a favore di quelle della dittatura. È certamente più facile trattare l’impotenza – sindrome generale della nostra epoca – attraverso la negazione che nominarla col suo per nome e riconoscerla. Se invece resta ancora una speranza nell’incubo che viviamo, è per qui che passa: attraverso il riconoscimento di ciò che è. Vale a dire attraverso il pensiero. È il nostro ultimo baluardo di resistenza.
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