2013, UN ANNO MEMORABILE – Se le prime settimane del nuovo anno sono tempi di bilanci, in tema di politica internazionale, l’America Latina, ci lascia dal 2013 tanti spunti ed eventi assolutamente rilevanti per l’intera scena globale. Partiamo dal dato economico di base: mentre l’euro-zona è ancora lontana dalla ripresa totale, i paesi sudamericani sono caratterizzati da un crescita economica generalizzata. La politica conosce, da pochi anni, una fase nuova; la democrazia rappresentativa è per alcuni paesi una relativa novità, o almeno lo è, ad esempio, la possibilità di scegliere candidati indigeni e non appartenenti alle vecchie élites. Novità sono anche le nuove forme di alleanze tra paesi con gli Stati Uniti esclusi, una conquista dei governi più progressisti che si sono insediati a partire dal 1999; capo stipite di questa generazione di governanti sicuramente Hugo Chavez.
Ma il cambiamento viene da lontano. Abbiamo visto questo continente attraversare varie fasi, dal periodo controrivoluzionario dei colpi di stato (dal Guatemala Repubblica delle banane, al golpe militare in Cile), il neoliberismo degli anni ’80 (la stesura del NAFTA e i suoi effetti in Messico) e le conseguenti proteste popolari degli anni ’90 che vedono momenti di tensione in Venezuela con il caracazo, e l’emergere prepotente delle questioni indigene dal Messico degli zapatisti alle regioni andine dell’Ecuador e della Bolivia.
CHAVEZ E GLI ALLEATI ORFANI – Proprio la morte del comandante venezuelano nel marzo del 2013 chiude formalmente l’era aperta con la sua elezione e lascia in forse il futuro dell’Alleanza Bolivariana per le Americhe (ALBA), che senza il suo maggior leader e ideatore perde la spinta propulsiva che caratterizza il progetto socialista e anti-liberista.
Contemporaneamente riscuote successi e produce interesse l’Alleanza del Pacifico, che non racchiude un progetto politico ma un’idea di cooperazione economica alternativa sia a Stati Uniti sia all’ALBA, e contrapposta al MercoSur (dell’asse atlantico), e vede i paesi firmatari (Cile, Colombia, Perù, Messico) e forse i futuri firmatari (Costa Rica, Panama) spostare i propri interessi verso il partner delle economie emergenti: la Cina, il grande land grabber. Quest’alleanza ha una rilevanza economica, perché favorisce il libero mercato e l’esportazione verso oriente ma anche geopolitica, perché denota una futura perdita di importanza del colosso americano, scenario che il Segretario di Stato John Kerry sembra proprio impossibilitato a fermare.
Se Chavez ha lasciato orfani i suoi alleati (e il suo paese, con un Maduro che tenta, con poco successo, di tenere assieme i pezzi dell’economia Venezuelana combattendo con l’inflazione e le destre), ancora senza più identità è la sinistra progressista. Mentre Raul Castro apre la roccaforte cubana a nuove leggi sull’emigrazione e a piccole soglie di mercato, i paesi più a sinistra, Ecuador su tutti, affrontano la questioni indigena e ambientale, che ormai vanno di pari passo. In particolare le enormi proteste per la decisioni di sfruttare la porzione denominata ITT del Parco Naturale dello Yasunì. Come per la Bolivia, petrolio e miniere stanno diventando scomodi alleati anche se si tratta di finanziare lo stato sociale e il sensibile abbassamento della soglia di povertà.
Le destre, che hanno fatto da padroni durante la guerra fredda, sono ferme in pochi paesi dove persistono le ex-oligarchie militari o in Colombia, ultimo grande baluardo filo-statunitense (dove si sono intavolati i primi tentativi di trattare la pace con FARC e ELN) e il sempre solido Messico governato dall’autoritarismo del Partito Rivoluzionario Istituzionale (il 2013 è stato anche l’anno in cui a 87 anni, nel carcere Marcos Paz in provincia di Buenos Aires, il macellaio argentino Jorge Rafael Videla ha smesso di vivere).
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Quale che sia l’orientamento politico dei governi, in America Latina, ancora di più che in altri continenti la sfida è lanciata dalla congiuntura di crisi ecologica ed economica. Le “nuove” democrazie, almeno formalmente, in mano ai popoli, hanno la possibilità di decidere del proprio governo e della gestione delle proprie risorse. Fino a pochi anni fa la peculiarità di questi paesi era l’economia indirizzata all’esportazione di materie prime, l’arretratezza del settore secondario e la totale dipendenza dal partner statunitense.
BUEN VIVIR E SEM TERRA – Oggi popoli, politica e movimenti devono scegliere se preservare le ricchezze della natura, seguendo quelli che sono gli ideali millenari delle popolazioni indigene, o continuare a cercare la via allo sviluppo occidentale, che sia un arricchimento diffuso o elitario. La forza e la peculiarità delle genti americane sta proprio nella forza delle loro tradizioni che possono segnare la via per un alternativa futura. Il buen vivir è oggi più che mai la base di partenza per i movimenti de izquierda che non vogliono pagare il benessere distruggendo l’Amazzonia o altri beni comuni.
Il Brasile sembra aver fatto le sue scelte, prima con il Presidente Lula e ora con Dilma Rousseff, liberismo moderato e sostegno ai grandi colossi dell’agroindustria sono capo saldi dell’economia brasileira. Nel giugno scorso abbiamo assistito alle proteste a Brasilia e a Rio de Janeiro durante la Confederation Cup, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro corruzione e spese folli. Col senno di poi ci ricordano le proteste del 9 dicembre qui in Italia, una variegata base sociale appartenente alla classe media, che non chiede un cambiamento rivoluzionario ma protesta perché impoverita dalla crisi. Mentre, anche se non all’onor delle cronache, i veri poveri e vero motore del paese, i contadini Sem Terra, persistono ancora nelle loro lotte anche a costo della vita.
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Una nuova possibilità è stata data anche a Michelle Bachelet Jeria, scelta il 15 dicembre 2013 dal popolo cileno come guida del Paese, facendo di lei la prima donna a vincere per due volte le presidenziali in Cile. Tra le sfide che aspettano la neoeletta presidente, oltre alla garanzia di un’istruzione gratuita e di qualità e alla riforma della Costituzione, non possiamo non citare la cruenta repressione in atto verso il popolo Mapuche, in lotta per recuperare le loro terre ancestrali. In Perù invece un’altra tribù difende con le unghia e i denti la terra dei propri avi: i Matses, che hanno invitato diverse aziende, tra cui anche alcune italiane, a boicottare le multinazionali petrolifere che vorrebbero sfrattarli.
Il 2013 è stato anche l’anno dell’Uruguay. Fino a qualche mese fa la maggior parte dei lettori statunitensi ed europei non avrebbe nemmeno mai saputo collocare Montevideo sul continente giusto, ma grazie al suo carisma da politico-contadino Josè Mujica ha saputo conquistare l’immaginario dei cittadini occidentali, troppo abituati alla mala politica. Il presidente uruguaiano devolve il 90% del suo stipendio a diverse O.N.G e ha rinunciato a vivere nel palazzo presidenziale preferendo la sua fattoria, solo per questo potrebbe ottenere una maggioranza nel nostro paese. Ma l’ex guerrigliero tupamaros è anche il riformatore di un paese prevalentemente agricolo che ha saputo liberalizzare la produzione e il consumo della marijuana, scendere a compromessi con l’opposizione per preparare un riforma educativa innovativa, e inoltre attuare misure economiche non di austerity ma di decrescita felice.
Il momento è storico, seppure con la difficoltà delle giovani democrazie non ancora abituate alla partecipazione de los de abajo (che noi europei abbiamo dimenticato), sempre più cittadini sudamericani possono avere un maggior protagonismo nelle scelte politiche. Certo non ci dimentichiamo di paesi del Centro America, lungi dal poter essere definito stati democratici, e paesi poverissimi come Haiti. Non ci dimentichiamo delle migliaia di persone uccise dai potentati locali, nelle zone amazzoniche, o nei grandi territori dell’agrobusiness o dove fanno da padroni i narcotrafficanti.
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