di Marco Marano
Le feste di natale si svolgevano come ogni anno, all’insegna dei regali da comprare, dei convivi da affrontare, in quella sorta di felicità consumistica e molto pagana attraverso cui raggiungere il nuovo anno. Era piena notte. Al numero civico 33 di via Fondazza, una strada a ridosso di Porta Maggiore, una centralina elettrica andava in corto e nella palazzina si innescava un incendio. Dopo l’immediata evacuazione, una ragazza che lì vi abitava, si trovava completamente sola, senza un posto dove dormire, dove mangiare.
In qualsiasi altro contesto questa sarebbe stata una situazione da Protezione Civile, ma in via Fondazza non ce n’è stato bisogno, semplicemente perché questa è la prima social street italiana. Alla ragazza evacuata dal proprio appartamento bastava mettere un post su facebook, dentro il gruppo chiuso degli abitanti di via Fondazza: “Sono in strada, non so cosa fare… Aiutatemi!” Immediatamente i cittadini rispondevano all’appello.
Un signore, tre numeri civici più avanti, si proponeva per i pranzi, ancora più avanti qualcun altro per le cene. Poi un’altra ragazza siciliana che si accingeva a passare le vacanze natalizie nella terra di origine, si offriva di prestargli il proprio monolocale per tutto il tempo che lei sarebbe stata fuori. Nel frattempo in via Matteotti, altra social street, una residente organizzava un banchetto nel mercatino natalizio: non si vendeva niente, si scambiava e basta. C’era bisogno di recuperare delle vivande per una famiglia in difficoltà economica. E così è stato.
“La social street è una forma di mutuo aiuto liberalizzato – osserva Federico Bastiani, il marketing man, abitante in via Fondazza, ideatore e fondatore di questo vero e proprio progetto sociale – e mi piacerebbe che diventasse un modello di sistema, anche se mi rendo conto che il cammino è lungo…”
Da settembre dello scorso anno, quando è nato il progetto, si è generato su internet un tam tam inarrestabile, tanto che allo stato attuale in città sono nate una quarantina di social street, mentre complessivamente in Italia siamo già a 164 strade sociali, sparpagliate in quasi tutte le regioni dello stivale.
Ma in che senso essa può diventare un modello di sistema? Prima di rispondere a questa domanda sarebbe interessante capire a quali tipi di bisogni la social street risponde, perché se la dimensione della cittadinanza attiva, con le sue varie formule, assume oggi una rilevanza sempre maggiore nelle città, c’è da dire che essa cerca di compensare i vuoti lasciati dal comparto pubblico nella gestione del territorio. Uno dei dati di realtà tra i più importanti è che in questa epoca globalizzata, il sistema pubblico italiano fa fatica a stare al passo con le trasformazioni sociali repentine e velocissime, e questo produce una difficoltà quasi endemica oramai nella lettura dei bisogni.
“Siamo stati contattati – sottolinea Federico – da un’antropologa dell’Università di Milano, perché è molto interessata all’analisi di questo nuovo modello di convivenza civile, dove le persone sono libere di dare, senza necessariamente chiedere nulla in cambio…”
Camminando per via Fondazza, si avverte che qualcosa di particolare c’è in questa strada. Molti esercenti hanno affisso dei volantini che promozionano una mostra sui visi dei residenti, e questo sembra il biglietto da visita di chi ha scelto un cambio di passo al “cannibalismo sociale” che imperversa in un paese costruito sulle sperequazioni e sui privilegi, amplificate dalla crisi economica, che ha spalancato la forbice tra ricchezza e povertà.
Ed è proprio nelle strade e nei condomini, che l’isolamento prodotto da questa maledetta situazione epocale vive le proprie piccole grandi tragedie. E’ in qualche modo la risposta di un gruppo di cittadini, all’assenza di risposte e alla diffidenza nei confronti delle governance istituzionali. Perché il problema del senso di comunità perduto, e potremmo dire di una socialità ritrovata, fa proprio da contraltare all’isolamento sociale di larghe fasce di popolazione, che proprio nei condomini e nelle strade vivono il loro dramma quotidiano. Certo, in via Fondazza, per le caratteristiche della morfologia sociale, non ci sono casi di marginalità; nella misura in cui però esso può assurgere a nuovo modello di convivenza, potrebbe essere un argine ad una stagione, che si prospetta ancora lunga, di precarietà sociale.
“Il Comune di Bologna sta rispondendo positivamente al nostro progetto – continua Federico – tanto che il sindaco Merola ha voluto partecipare all’inaugurazione della mostra. Inoltre abbiamo avuto contatti con l’assessore Lepore, il quale vuole rilanciare Bologna come primo comune d’Italia verso la cittadinanza attiva.”
C’è un aspetto di non poco conto da tenere presente, e cioè che nelle strade bolognesi dove più presenti sono situazioni di fragilità e marginalità, non vi è stato nessun promotore ad attivarsi per creare una social street. Un fenomeno questo da indagare poiché proprio in quelle strade un progetto sociale nato dal basso potrebbe diventare un viatico verso la liberazione dalla precarietà. Forse però in questi casi la municipalità, magari attraverso i quartieri, potrebbe supportare dei cittadini di buona volontà.
Se la vocazione bolognese alle buone prassi sociali negli ultimi anni si è un po’ affievolita, oggi il modello social street può, dunque, rappresentare un vero e proprio rilancio per il territorio. C’è anche da dire che questo pone nuovi problemi di tipo gestionale alla municipalità, poiché fino a questo momento il sistema di rete pubblico-privato bolognese, ammirato in tutta Europa, ha visto il Comune affidare ad associazioni o cooperative, per intenderci il privato sociale, pezzi di welfare metropolitano.
Ora, in una situazione come quella delle social street, dove la liberalizzazione del mutuo aiuto passa proprio dalla negazione di qualsiasi forma associativa/societaria burocratizzata, attraverso quali modalità potrebbe essere possibile un ipotetico supporto della municipalità? Nuovi bisogni hanno la necessità di avere nuove soluzioni. Forse il futuro è già cominciato…
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