Nella ricorrenza dei 66 anni dalla cacciata del popolo palestinese, il ricordo di quei giorni per i palestinesi in Libano è l’occasione per rivendicare il proprio diritto al ritorno. E per trasmetterne la memoria alle nuove generazioni.
testo e foto di Stefano Fogliata
Speravano di celebrare l’anniversario della Nakba, il “giorno della catasfrofe”, a Maroun al-Ras, all’estremo sud del Libano, pochi metri dal confine con Israele. “Da lì possiamo almeno vedere la Palestina; molti dei nostri villaggi sorgevano proprio a pochi passi dal confine odierno” tengono a precisare gli anziani del campo di Beddawi, nel nord del Libano vicino a Tripoli. Ma da tre anni a questa parte la General security libanese non rilascia ai palestinesi il permesso per manifestare alla frontiera: nel 2011 una decina di manifestanti sono stati freddati dall’esercito israeliano durante le manifestazioni e da allora lo stato libanese ritiene pericoloso ed instabile permettere la commemorazione della Nakba a pochi metri dai mitra israeliani.
I discendenti di quelle famiglie fuggite in Libano durante l’offensiva sionista ad oggi oggi sono più di 450.000 persone, per lo più rinchiusi nei 12 campi ufficiali gestiti dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni unite che si occupa di assistenza e tutela dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente. Il 66esimo anniversario della Nakba giunge in un momento particolarmente critico che risente anche del vicino conflitto siriano: l’atmosfera in molti dei campi, in particolare in quelli attorno a Sidone, è particolarmente tesa anche per l’arrivo di decine di migliaia palestinesi presenti in Siria dal 1948.
Nel campo di Beddawi, 5 km da Tripoli, ai circa 40.000 PRLs (Palestinian refugees from Lebanon) si sono aggiunti più di 10.000 persone in fuga della Siria, molti di loro provenienti dal purtroppo celebre campo di Yarmouk. 50mila persone in poco più di due chilometri quadri: un sovraffollamento spaventoso in un ambiente privo di qualsiasi servizio e caratterizzato da condizioni di vita ai limiti dell’umano.
Alla vigilia della ricorrenza della Nakba, a Beddawi la tensione sembra scomparire, per lasciar spazio al ricordo e alla ricorrenza dell’evento che ancora oggi condiziona pesantemente il vivere quotidiano dei circa 5 milioni palestinesi dispersi per il globo.
Complice anche il rifiuto delle autorità libanesi, le circa 20 NGOs presenti hanno deciso di comune accordo di dedicare l’anniversario ai bambini del campo, che ormai costituiscono la terza generazione di popolazione nata al di fuori della Palestina.
“Proprio per tenere viva la memoria di quei giorni ed per riaffermare diritto al ritorno nella propria terra abbiamo deciso di mostrare alle giovani generazioni del campo cosa significhi Palestina” tengono a precisare gli organizzatori.
Lungo un vicolo posto tra due scuole dell’UNRWA è un moltiplicarsi di volti, fotografie, mappe, così come vestiti e strumenti tradizionali palestinesi. Decine di donne anziane, poco più che bambine nel ’48, spiegano minuziosamente ai bambini l’utilizzo del ferro da stiro a carbone e la modalità di produzione del burro secondo i dettami antichi. A pochi metri di distanza, all’ombra di un’enorme bandiera palestinese appositamente sistemata sopra il vicolo, i bambini hanno la possibilità di assaggiare gli immancabili falafel. Lungo il vicolo, si susseguono centinaia di immagini e slogan inneggianti al diritto al ritorno e alla liberazione dall’occupazione sionista. Accanto, fotografie in bianco e nero testimoniano la vita delle famiglie palestinesi prima della Nakba. Con gli stereo a diffondere nell’aria canzoni tradizionali palestinesi , sembra quasi di assistere ad una festa.
“Non è una festa, ma una celebrazione” tiene a precisare Abu Atef, il responsabile del campo per Beit Atfal Assomoud (la casa dei bambini: resistenza), una delle principali ONG che ha organizzato questa giornata. “Non c’è nulla da festeggiare, – prosegue – dopo 66 anni siamo ancora qui, ospiti di uno Stato che ci ospita ma che non è casa nostra. Se ne avessimo la possibilità, tutti quanti partiremmo oggi stesso verso la Palestina solo con i nostri vestiti indosso.” Sull’obiezione secondo cui un ritorno, sancito da diverse fonti di diritto internazionale, sarebbe impraticabile nei fatti, Abu Atef sembra aver chiare le idee: “ Il villaggio da cui viene la mia famiglia, Al-Buwayziyya, è stato completamente raso al suolo dalle bande sioniste nel ’48: delle circa 2500 persone di allora a oggi non rimane altro che dei muri di una casa in mezzo alle sterparglie. Potremmo ricostruire e tornare ad abitare a casa nostra.”
Sui rapporti con Israele e su eventuali compromessi, Abu Atef è inflessibile: “Nessuna negoziazione con chi occupa la nostra terra. Voi italiani dovete chiedere il permesso a qualcuno per tornare a casa?”. Continua: “torneremo; se non sarò io a farlo saranno i miei nipoti. Proprio per questa ragione commemorazioni come quelle odierne sono fondamentali sia per il passato che in prospettiva futura: il ricordo della Nakba è la logica di tutto. Provate a chiedere ad ogni bambino nel campo: ognuno sa indicare esattamente dove si trova il villaggio natale della propria famiglia in Palestina”.
E quasi a conferma di ciò, tra l’emozione generale e gli occhi lucidi dei nonni, i bambini tornando verso casa cantano a gran voce l’attaccamento alle proprie radici: i vicoli angusti del campo risuonano al grido di: “Berroach beddaam naftiiki a-Falestiin”.
“Con tutto il nostro cuore e con tutto il nostro sangue ti libereremo, Palestina”.
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