«Stando ai dati dell’altro ieri, i feriti sono 1687. Secondo l’Onu, il 77% sono civili». A parlare è Stefano Zannini, responsabile del dipartimento supporto alle operazioni di Medici Senza Frontiere, che da anni è attivo a Gaza. Intervista di Giulia Sabella.
Qual è la situazione sanitaria a Gaza?
Le strutture sanitarie locali hanno risposto molto bene sin dall’inizio, riuscendo a gestire il flusso crescente di feriti. Nonostante questo ci sono una serie di problemi che rischiano di aggravare la situazione nei prossimi giorni. Innanzitutto diverse strutture medico-sanitarie sono state danneggiate. Secondo l’Onu sono circa 23, e si tratta di un numero importante se pensiamo che Gaza ha circa 2 milioni di abitanti. Il secondo elemento da tenere in considerazione è la carenza cronica di medicinali. Con l’apertura, tre giorni fa, del valico di Rafah, è stato possibile fare entrare a Gaza diverse tonnellate di materiale. Si tratta però di un evento sporadico e non è detto che nei prossimi giorni sia possibile far entrare altro materiale. Oltre ai medicinali, scarseggia anche il carburante, fondamentale per far circolare le ambulanze e per permettere il funzionamento dei gruppi elettrogeni che fanno funzionare gli ospedali durante i blackout. Infine manca l’acqua, essenziale per effettuare interventi operatori. Negli ultimi giorni alcune strutture idriche sono state danneggiate e questo potrebbe avere un impatto nei prossimi giorni.
Quali tipi di ferite avete riscontrato?
Possiamo parlare di due macro-ambiti. Da un lato c’è quello puramente medico, che comprende le persone con ferite legate ai bombardamenti e al conflitto. Non è infatti un caso che a Gaza i reparti più sotto pressione siano il pronto soccorso, terapia intensiva e le sale operatorie. Accanto a questo c’è tutto un altro aspetto in continua crescita che riguarda i problemi di salute mentale. Per fare un esempio, abbiamo saputo che nel distretto di Nablus, in Cisgiordania, ci sono diverse famiglie che hanno bisogno di intervento medico immediato. Si tratta spesso di vittime dirette o indirette del conflitto, che hanno visto case distrutte, incursioni di soldati, aggressioni.
Qual era la situazione a Gaza prima dell’inizio dell’operazione?
Ci sono state fasi diverse. Prima dell’operazione militare vera e propria, l’esercito israeliano ha battuto la zona a tappeto alla ricerca dei tre ragazzi spariti. La situazione era estremamente delicata, c’era una pressione militare molto forte ed era anche aumentato il numero di pazienti coinvolti nel nostro programma di salute mentale. Prima di allora però le strutture le strutture medico-sanitarie funzionavano, nonostante la carenza cronica di medicinali e di materiale.
C’è il rischio che gli ospedali possano diventare degli obiettivi militari?
Il nostro punto di vista è molto chiaro: in tutti i Paesi nei quali è in corso un conflitto noi chiediamo agli attori armati coinvolti di non usare le strutture medico-sanitarie per fini militari. Facciamo quindi appello affinché non vengano danneggiate, saccheggiate, distrutte, ma chiediamo anche che non vengano utilizzate per proteggere i combattenti oppure per immagazzinare gli armamenti.
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