L’ultimo porto toccato dal Titanic: il viaggio e la tragedia raccontati in un museo

Il nostro viaggio inizia una mattina di aprile a Cobh (prima Queenstown), nella costa sud dell’Irlanda: siamo nella contea di Cork e proprio qui c’è il secondo porto naturale più grande del mondo, subito dopo quello di Sidney. Immaginate quante persone, quante merci, quante speranze passano da qui ogni giorno: questo è uno dei punti più trafficati di tutta l’isola.
Davanti a noi c’è l’oceano e, appena dopo l’orizzonte… L’America. Qui sul pontile tira un vento freddo, ma l’emozione non me ne fa nemmeno rendere conto, a me, che non ho mai conosciuto una vera estate…”: queste sono le sensazioni che avrebbe potuto provare, o magari scrivere sul suo diario, per ingannare l’attesa, un passeggero che era qui, come me, al punto di imbarco nel palazzo della White Star Line. Ho in mano il mio biglietto per visitare la “Titanic Experience” di questa cittadina deliziosa appena fuori la città di Cork che, oltre ad ospitare il suo grande porto, è famosa per aver fatto ormeggiare per qualche ora un grande protagonista della storia del Novecento: “sua maestà” il Titanic. Il grande orgoglio della compagnia britannica White Star Line si è fermato proprio qui, dopo essere passato per Southampton (Inghilterra) e Cherbourg (Francia), per caricare gli ultimi passeggeri.
Erano in 123, pronti ad imbarcarsi qui, quella mattina dell’11 aprile del 1912. Proprio dove sto camminando adesso. Fa un effetto meraviglioso e allo stesso tempo terribile: guardo il biglietto, che è una fedele riproduzione di quello di Margaret Devaney, una ventenne coraggiosa, che stava intraprendendo da sola il grande viaggio che sognava da una vita… Quello che gliel’avrebbe cambiata per sempre. Fermatevi un attimo a pensare: riuscite a immaginare quanto fosse combattuta, quel giorno, tra l’emozione per un grande cambiamento e il dolore nel salutare la sua famiglia? Lei come tutti gli altri che si apprestavano a salpare…

biglietto Margaret     molo White Star

La guida ci dice che siamo pronti per partire: sono in un gruppo di quattro persone e ognuno di noi ha un biglietto di terza classe. Lei ci tratta come se fossimo dei veri passeggeri. Ci parla della nascita di questo colosso di fabbrica irlandese, costruito nel cantiere della Harland and Wolff a Belfast, destinato a viaggiare tra l’Europa e l’America ogni settimana, trasportando persone e posta: il nome esatto della nave, infatti, era RMS Titanic (la sigla sta per Royal Mail Ship). Ci racconta dell’ambizioso progetto della compagnia di realizzare tre transatlantici gemelli: l’Olympic, il Gigantic (poi rinominato Britannic) e il Titanic. Quest’ultimo era il più lussuoso del mondo, tanto da superare il Lusitania e il Mauretania, gioielli della Cunard Line, compagnia rivale della White Star. Il capo progettista Thomas Andrews e l’amministratore delegato Bruce Ismay fecero sì che a bordo si rappresentassero il massimo dell’avanguardia navale e del lusso a livello mondiale.
L’ “inaffondabile” partì da Southampton (Inghilterra) alle 12:00 del 10 aprile. Al timone c’era Edward John Smith, capitano di lungo corso, che si preparava all’ultimo viaggio prima della pensione.

LEGGI ANCHE:   La roulette russa dei call center al tempo del Covid-19

“Dovevamo partire con il Philadelphia, ma la nave non poteva salpare a causa dello sciopero del carbone. Ci fu offerto allora di viaggiare sul Titanic: io e mio padre eravamo entusiasti perché tutti parlavano di questa nuova nave, ma mia madre aveva avuto un brutto presentimento. Disse che no, non avremmo dovuto accetare.”

queste sono le parole di Eva Hart, l’ultima testimone della tragedia (Milvina Dean, che all’epoca aveva pochi mesi di vita, è stata l’ultima superstite). Quel giorno molti passeggeri di altre navi vennero imbarcati sul Titanic a causa di uno sciopero del carbone che andava avanti dal gennaio precedente. Appena salpato, il Titanic rischiò un brutto incidente quando il transatlantico New York ruppe gli ormeggi a causa della massa d’acqua che si era spostata al suo passaggio, ma il pericolo venne scongiurato per tempo.
La guida ci fa uscire sul pontile originale da dove si imbarcarono i passeggeri di Queenstown e ci dice che a padre Francis Browne, un gesuita che era in arrivo da Southampton, venne offerto un biglietto per New York da una coppia americana che aveva conosciuto a bordo, ma il suo superiore gli negò il permesso e scese a Queenstown, proprio nel punto in cui ci troviamo adesso. Grazie a padre Browne abbiamo una importantissima collezione di fotografie di bordo e l’unica foto esistente della Marconi room, la sala radio.

Il marconista Harold Bride nella sala radio
Il marconista Harold Bride nella sala radio

Spostandoci all’interno, possiamo visitare un prototipo di una cabina di terza classe con una sala comune e il menù appeso alla parete (i pasti inclusi per la terza classe erano una novità) e una di prima classe anche se, spiega la guida, “tutte le cabine, le suite e gli appartamenti di prima classe erano diversi”.
Ma quella che fa più effetto è l’ultima sala che si visita: ci fanno sedere al buio davanti a un maxischermo, come se fossimo su una delle scialuppe di salvataggio e il video che viene trasmesso, con la descrizione minuziosa delle ultime ore della nave, è devastante. Quando si esce da lì si resta letteralmente senza parole.
Si passa poi in una saletta dove sono conservati alcuni oggetti appartententi a una passeggera e c’è una tabella dove sono elencate tutte le persone imbarcate a Queenstown: lì puoi vedere la fine che ha fatto il personaggio del tuo biglietto. Margaret Devaney era una dei sopravvissuti.
In un documentario del 1995 diretto da Ray Johnson, Eva Hart rilascia la sua toccante testimonianza della tragedia:

LEGGI ANCHE:   La roulette russa dei call center al tempo del Covid-19

“Mio padre ci mise addosso cappotti e coperte e lasciammo la cabina. Ci ritrovammo sul ponte. Se non avessimo fatto così, se non ci fossimo mossi subito, io certo non sarei qui a parlarvi adesso. […] Quando salii io sulla scialuppa era ancora tutto tranquillo, perché non c’era ancora nessuno sul ponte. Non ci fu caos fino al momento in cui tutte le scialuppe furono messe in acqua. Ma poi la gente cominciò a correre lungo il ponte, gridando che non c’erano più scialuppe. Noi eravamo giù, in mare, ma li sentivamo”.

Noi non potremmo mai sapere cosa è potuto significare assistere a qualcosa del genere ma loro, i sopravvissuti, quella scena non se la toglieranno mai dalla mente. Ecco perché è sbagliato trattare il naufragio del Titanic come un avvenimento storico secondario: la notte del 15 aprile 1912 non si è solo spezzata una nave, ma sono state spezzate intere famiglie, sono stati spezzati i loro sogni, i loro progetti, è stato fermato quello che si credeva un grande passo verso il progresso. Si salvarono in 705. Solo 20 scialuppe non sarebbero bastate nemmeno a contenere la metà dei 2228 passeggeri (16 era il numero minimo previsto dalla legge per una nave di 10.000 tonnellate; il Titanic ne pesava 46.000) e questo solo per un capriccio di presunzione, che è costato la vita a 1523 persone. Un “tributo all’arroganza umana”, come disse Robert Ballard, l’archeologo che trovò il relitto il primo settembre del 1985.

LEGGI ANCHE:   La roulette russa dei call center al tempo del Covid-19

“Ci allontanammo in fretta – continua la Hart – e io rimasi con gli occhi fissi su quella tragedia, senza chiuderli mai. Vidi la nave affondare e la vidi spezzarsi. […] Io e mia madre fummo separate. C’erano le urla della gente che affogava: era terribile. Per anni mia madre cercò di farmi parlare di quella notte, ma io non volevo. Eppure non dimenticai mai quei momenti. […] Una volta a bordo non riuscivo a trovare mia madre. Ci cercammo per ore. Una delle cose più tristi, una volta a bordo, fu la vista di tutte quelle povere donne che, come mia madre, si aggiravano per il ponte cercando i mariti che non avrebbero mai più trovato”.
Dopo di me non ci sarà più nessuno a ricordare al mondo quella notte”.

Eva Hart morì il 14 febbraio del 1996, all’età di 91 anni.


Profilo dell'autore

Marta Carboni
Marta ha collaborato con varie agenzie di stampa e con Frontiere News. Si è laureata in Scienze della Comunicazione, Informazione e Marketing alla Lumsa di Roma e successivamente ha conseguito un master in Critica Giornalistica per Teatro, Cinema, Televisione e Musica all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica "Silvio d’Amico". Al momento si trova in Irlanda, dove lavora come team manager per Telus International.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Potresti apprezzare anche

No widgets found. Go to Widget page and add the widget in Offcanvas Sidebar Widget Area.