Ucraina al bivio, cosa rimane di Euromaidan?

Joshua Evangelista (Frontiere News) per Gli Stati Generali

Camminano a passo d’uomo nella lunghissima fila tinta di giallo e azzurro, frugando con lo sguardo tra le centinaia di foto affisse sul pannello di compensato. All’improvviso si fermano: l’hanno trovata. Guance graffiate dalle lacrime, Tatiana fissa l’immagine di Sacha, il figlio morto alcuni mesi fa durante un agguato nel Donbass. Maria, figlia e sorella, accarezza la spalla della madre e la invita a continuare a camminare, per evitare di intralciare il passaggio di altre centinaia di persone, giunte da tutta l’Ucraina per lo stesso motivo.

Tatiana, Maria e Sacha sono i simboli dell’Ucraina che con tanto affanno prova ad iniziare il futuro con il 2015. Nel frattempo la rivoluzione della dignità, come i primi attivisti avevano chiamato quella che sarebbe stata rimbalzata in tutto il mondo come #Euromaidan, è diventata rivoluzione della memoria. Maidan Nezalezhnosti, piazza dell’Indipendenza, è un lungo labirinto di foto, candele e barattoli per raccogliere spicci da destinare ai battaglioni di volontari dislocati lungo gli oltre 500 km di fronte con i separatisti. Qualche cantante folk racconta in versi i proiettili sparati dai cecchini nel freddo di febbraio, un anziano vestito da cosacco distribuisce ai passanti opuscoletti sulla “vera” storia della Crimea.

La nuova coesione sociale è basata sul ricordo del 21 novembre 2013, quando l’ex presidente Viktor Janukovyc sospese l’accordo di associazione con l’Unione europea dando inconsapevolmente il via alle manifestazioni. L’ha capito bene il suo successore, Petro Poroshenko, che di questa memoria farcisce ogni azione di governo. A partire proprio dal recente decreto che ha reso il 21 novembre festa nazionale.

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Certo, non basta una festa per rinnovare il consenso conquistato alle urne. L’ha sperimentato proprio in piazza, quando è stato sonoramente fischiato da diversi dei famigliari delle oltre 1000 vittime della rivoluzione, che chiedono un’assistenza sanitaria e sociale potenziata ai parenti dei “martiri”. Ma anche una presa di posizione più netta verso chi era dall’altra parte della barricata e ora ha cambiato bandiera per mantenere posizioni di potere.

Doveva essere anche il 21 novembre di Joe Biden, appena atterrato a Kiev e pronto al bagno di folla. Ma non è stato così. Visti i fischi e le urla verso Poroshenko, il vice presidente degli Stati Uniti ha preferito non uscire dall’auto e ha virato verso luoghi più riparati. Del resto il figlio di Joe, Richard, è membro di spicco del cda della Burisma, la principale compagnia di gas dell’Ucraina. Una contestazione pubblica avrebbe creato un pericoloso precedente.

Ma non saranno certo i fischi a impedire il percorso politico tracciato da Poroshenko. Il presidente e magnate della cioccolata ha promesso che entro il 2020 l’Ucraina farà la sua candidatura ufficiale per diventare membro dell’Unione europea. Promessa che non convincono una buona parte dell’elettorato, sempre più deluso dal supporto diplomatico dell’Unione europea nelle varie fasi della crisi. Del resto l’Ue non ha mai promesso una full membership, ha partecipato al post Janukovyc tenendo principalmente conto delle necessità di Lituania e Polonia e non ha offerto una reale exit strategy diplomatica che andasse oltre le sanzioni alla Russia.

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