Il conflitto russo-ucraino spiegato dal punto di vista del diritto internazionale

È opportuno parlare di genocidio delle popolazioni russofone in Ucraina? Come si collocano le richieste di Mosca nel contesto del diritto internazionale? Perché questa guerra sta ricevendo una mediatizzazione straordinaria, specie se paragonata alla scarsa attenzione su altri conflitti in corso? Come poter ripensare il ruolo dell’ONU, alla luce dei suoi effettivi limiti? Partendo da questi aspetti cruciali ma spesso trattati superficialmente, Maria Stefania Cataleta – docente di Operazioni di pace e intervento umanitario presso l’Università Niccolò Cusano nonché avvocato abilitato innanzi alla Corte Penale Internazionale – delinea i contorni giuridici degli scontri avvenuti nel Donbass dal 2014 e delle attuali operazioni militari ordinate dal Cremlino contro Kyiv.

di Maria Stefania Cataleta


Le origini del conflitto che interessa l’Ucraina sono da ricercarsi nelle proteste europeiste di Maidan del novembre del 2013 contro la decisione del Governo di Viktor Janukovič di non firmare l’accordo di associazione e libero scambio con l’Unione europea. Questo rifiuto si accompagnò ad un intensificarsi dei rapporti economici con la Russia. Oltre a scatenare le accese proteste, soffocate con la violenza dalle forze governative, quella decisione diede il via ad una lunga fase di instabilità politica nel Paese.

Dopo la sua destituzione, Janukovič trovò riparo in Russia, dove ha di fatto “ceduto” la Crimea a Putin, il quale poi l’ha annessa alla Russia il 18 marzo 2014 a seguito di un’operazione militare condotta nella notte tra il 26 e 27 febbraio, quando militari russi armati e in uniforme presero il controllo effettivo su tutta la penisola.

Il controverso referendum sull’autodeterminazione della Crimea, che ne decretò la secessione dall’Ucraina il 16 marzo 2014, oltre a rendere discutibile quella secessione secondo il diritto internazionale, non si può dire si sia svolto liberamente, stante la presenza dei militari russi sulla penisola e fuori dai seggi. Tredici membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU votarono a favore di una risoluzione che dichiarasse non valido il referendum, ma la Russia pose un veto, mentre la Cina si astenne. Successivamente, l’Assemblea Generale adottò una risoluzione con 100 voti favorevoli, 11 contrari e 58 astenuti, con cui si dichiarava non valido il referendum e si riaffermava il diritto dell’Ucraina alla propria integrità territoriale.

Nello stesso periodo dell’annessione della Crimea, individui armati ma con uniformi non riconoscibili presero il controllo di alcune province del Donbass, esattamente Doneck, Luhansk e Charkiv. Questo fece scattare un’operazione militare da parte dell’allora Presidente ucraino Oleksandr Turčynov contro quella che fu ritenuta una minaccia terroristica rappresentata dai separatisti. La “Strage di Odessa“, in cui persero la vita oltre 40 manifestanti, fu uno dei momenti più emblematici e cruenti dello scontro militare tra separatisti e governo ucraino, ma migliaia di persone hanno perso la vita dall’inizio di una malcelata occupazione russa, che è all’origine dello scoppio di quel conflitto.

Soldati russi in Crimea, 2014 [AFP]

In seguito, il mancato rispetto degli Accordi di Minsk I e II sulla concessione di una certa autonomia a fronte del ritorno all’Ucraina delle regioni ribelli, ha protratto ininterrottamente il conflitto, fornendo a Putin il pretesto per l’aggressione dell’Ucraina. Questa è stata giustificata in diverso modo da Putin, dapprima come intervento umanitario per porre fine al presunto genocidio in corso nei confronti delle minoranze russofone in Donbass. Tale asserito genocidio è stato smentito dalla Corte internazionale di giustizia, secondo la quale è comunque illegittimo il ricorso unilaterale della forza finanche per prevenire un genocidio, poiché gli Stati devono sempre ricorrere agli organi competenti dell’ONU. Ad ogni modo, la CIG ha categoricamente escluso che all’epoca fosse in atto un genocidio nei confronti delle popolazioni russofone del Donbass. Del resto, è ancora oggi dubbio se l’intervento umanitario sia ammesso dal diritto internazionale e lo stesso intervento umanitario in Kosovo fu molto dibattuto in quanto si ritenne illegittimo da più parti e giustificato più da ragioni metagiuridiche, come la doverosità morale. In seguito, l’aggressione all’Ucraina è stata giustificata pubblicamente da Putin come un’azione dall’intento “salvifico” di liberare il popolo ucraino da nazisti e drogati che sarebbero a capo del governo di Kyiv. Più recentemente, nell’ultimo discorso di Putin alla Nazione in occasione delle sfarzose celebrazioni per la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, è stato sostenuto che l’intervento armato sarebbe stato sferrato a titolo di legittima difesa preventiva contro una fantomatica minaccia imminente da parte della NATO.

L’operazione militare speciale di Putin, asseritamente messa in atto per liberare il Donbass, altro non è che una manifesta violazione dell’art. 2, par. 4, della Carta dell’ONU, nonché di una norma di diritto internazionale consuetudinario cogente che vieta il ricorso alla forza armata al di fuori dei due soli casi ammessi, ovvero la legittima difesa e l’uso della forza dietro autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.

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Lo scatenamento di una guerra di aggressione chiama in causa non soltanto la responsabilità internazionale dello Stato, ma anche la responsabilità penale internazionale di coloro che l’hanno pianificata e attuata. Si tratta di due profili diversi di responsabilità.

Poiché la stessa Federazione russa è membro permanente del Consiglio di Sicurezza, questo rende impossibile l’adozione di misure efficaci in ragione del potere di veto di cui dispongono i cinque membri permanenti. In altri casi analoghi di aggressioni armate contro la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di altri Stati, il Consiglio di Sicurezza è intervenuto efficacemente e duramente, come è accaduto nel caso dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, avvenuta nel 1990, quando una coalizione di ben 35 Stati fu autorizzata dal Consiglio di Sicurezza ad usare la forza a titolo di legittima difesa collettiva contro Saddam Hussein. Questo non può verificarsi nei confronti della Russia, in primo luogo per il prevedibile esercizio di veto di quest’ultima, ma soprattutto poiché la Russia è una Potenza nucleare, ciò che non era l’Iraq, la cui forza militare non sarebbe stata in grado di scatenare una terza guerra mondiale, ma solo la prima guerra del Golfo.

Questo impedimento non ha, tuttavia, impedito all’Assemblea Generale (AG) di adottare una risoluzione, il 2 marzo 2022, con cui 141 Stati su 192 hanno chiesto alla Russia il ritiro immediato, completo e incondizionato delle sue truppe dall’Ucraina.

La conduzione delle ostilità da parte dei russi in Ucraina è particolarmente odiosa e indiscriminata, come dimostra il massacro di Bucha o il bombardamento del teatro di Mariupol o delle acciaierie Azovstal colme di civili. Si colpiscono deliberatamente obiettivi civili e protetti, ed è fatto uso di armi vietate, come le bombe a grappolo, vietate dalla Convenzione di Dublino, adottata il 30 maggio 2008 ed entrata in vigore l’1 agosto 2010, che vieta l’uso, lo sviluppo, la produzione, l’acquisto, lo stoccaggio e il trasferimento delle c.d. cluster bombs. Questi sono crimini di guerra, su cui sta giustamente investigando il Procuratore della Corte penale internazionale (CPI), dopo che il caso le è stato deferito con un referral congiunto di diverse decine di Stati. Questo deferimento da parte di tantissimi Stati estranei al conflitto rappresenta la mobilitazione della comunità internazionale, che risponde con le armi del diritto alla prova di forza di Putin.

La denuncia di simili efferatezze e la mobilitazione internazionale è possibile grazie alla straordinaria mediatizzazione di questa guerra, cosa non sempre avvenuta in altre guerre come quella in Yemen, del tutto trascurata dalla comunità internazionale. Certi episodi cruenti hanno potuto scatenare reazioni proprio grazie alla diffusione mediatica. L’eco delle notizie sul massacro del mercato di Račak in Kosovo nel 1999 diede il via al controverso intervento NATO. Un massacro che non viene trasmesso dai media diventa invisibile agli occhi dell’opinione pubblica. Al tempo dell’invasione statunitense di Panama, avvenuta simultaneamente alla caduta del regime di Ceauşescu in Romania, i due eventi ebbero una diversa risonanza da parte dei media. Il primo fu trascurato, a causa del divieto americano rivolto ai giornalisti di filmare le scene di guerra, mente il secondo fu spettacolarizzato. Il risultato fu che non si parlò delle duemila vittime panamensi, molte delle quali civili, mentre invece si enfatizzarono, per quanto a ragion veduta, le violazioni dei diritti umani perpetrate sotto il regime rumeno.

Il conflitto in Ucraina mostra il ruolo cruciale che assolvono i media, che possono sortire più effetti: scuotere le coscienze dell’opinione pubblica, mobilitare gli organi internazionali e raccogliere prove preziose per inchieste e azioni giudiziarie doverose.

Per quanto riguarda le indagini avviate dal Procuratore della CPI, è vero che sia l’Ucraina che la Russia non hanno mai sottoscritto lo Statuto della CPI e quindi non hanno riconosciuto la sua giurisdizione, ma l’Ucraina ha, nel 2014 e una seconda volta nel 2015, con una dichiarazione ad hoc, accettato la giurisdizione della Corte proprio perché indagasse sui crimini compiuti durante le proteste di Maidan, in Crimea e nel Donbass. Purtroppo, relativamente all’Ucraina, la Corte può procedere in relazione ai crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, ma non per il crimine di aggressione, indubbia condotta criminosa perpetrata da Putin. Questo poiché il presunto reo deve essere cittadino di uno Stato Parte allo Statuto della Corte (Stato nazionale) o perché il crimine deve essere stato commesso sul territorio di uno Stato Parte (Stato territoriale). L’atto di aggressione contro l’Ucraina non ricade in alcuna di queste due ipotesi. Inoltre, l’Ucraina avrebbe dovuto accettare gli emendamenti allo Statuto di Roma che nel 2018 hanno conferito alla Corte anche la giurisdizione sul crimine di aggressione. Vi sarebbe la possibilità, in questi casi, che la Corte sia adita da parte del Consiglio di Sicurezza, come avvenne per i crimini commessi in Darfur o in Libia, che non erano Stati Parti allo Statuto, ma tale potere sarebbe precluso al Consiglio dal prevedibile esercizio del diritto di veto della Russia.

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Rimane da chiedersi cosa resta di un organo, quale è il Consiglio di Sicurezza (CdS), che secondo la Carta dell’ONU ha il compito principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, se al suo interno proprio uno dei membri permanenti è responsabile di un atto di aggressione che mina questa pace. Questa è l’empasse in cui si trova attualmente quest’organo, che di fatto non può svolgere il proprio mandato principale per il quale esso è stato creato.

In un articolo apparso su Le Monde diplomatique, Anne Cécile Robert accusa di obsolescenza le NU, sostenendo che, nel caso dell’Ucraina come anche in altri come la Siria, l’Organizzazione abbia fallito nella sua missione di garantire la pace e la sicurezza internazionali. In effetti, vi sono grandi Potenze, non solo la Russia, che compongono il CdS e che al tempo stesso violano il diritto internazionale, minacciando il multilateralismo incarnato proprio dall’ONU.

La crisi esistenziale che ha colpito l’ONU si trascinerebbe da circa dieci anni, infatti non è la prima volta che i principi supremi su cui è incardinato il sistema onusiano nonché il diritto internazionale consuetudinario – cioè il divieto dell’uso della forza armata e la non ingerenza negli affari interni – sono violati da un membro permanente. L’invasione dell’Iraq nel 2003 da parte di una coalizione di Stati occidentali capeggiati da Washington e Londra ne offre un esempio emblematico. Per venire ai giorni nostri, invece, occorre ricordare il bombardamento illegale di installazioni chimiche siriane da parte di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, il 13 aprile 2018, che provocò una riunione d’urgenza del CdS.

Sintomo della situazione di stallo in cui si trova il CdS è il fatto che l’AG, che di regola non può pronunciarsi su questioni di cui è investito il Consiglio, si sia eccezionalmente pronunciata sia sul conflitto in Siria che su quello in Ucraina, in virtù della risoluzione United for Peace del 3 novembre 1950 che, in caso di blocco del CdS a causa del veto dei suo membri mermanenti, le consente di intervenire ma senza, tuttavia, poter adottare misure coercitive, in quanto prerogativa del solo CdS.

Le due risoluzioni adottate a larga maggioranza dall’AG contro la Russia, il 2 e 24 marzo 2022, non possono però far passare in secondo piano il fallimento dell’ONU come organo di polizia internazionale. L’abuso di potere di una grande Potenza come la Russia mina, infatti, la credibilità e la fiducia della comunità internazionale nell’ONU. Come se non bastasse, il Segretario generale ha atteso il 19 aprile per prendere un’iniziativa diplomatica, essendosi prima concentrato soprattutto sull’aspetto umanitario della guerra, in ragione delle migliaia di morti e dei milioni di rifugiati scappati dal conflitto.

Il 25 febbraio, nonostante fosse stata votata da quindici Paesi su undici, la risoluzione volta a condannare la Russia è stata rigettata proprio a causa del veto della Russia. Questa risoluzione avrebbe permesso al Consiglio di assolvere il proprio compito, infliggendo delle sanzioni, come avvenne nel 1991 contro l’Iraq dopo l’invasione del Kuwait, o autorizzando un intervento militare, come avvenne nel 2011 contro la Libia di Gheddafi. Il segno di tale fallimento si era già avuto chiaramente con il conflitto siriano, rispetto al quale il Consiglio non è riuscito ad avviare un vero processo di pace con una strategia precisa. Questo sembra ripetersi con l’Ucraina, poiché solo 54 giorni dopo lo scoppio del conflitto il Segretario generale ha deciso di incontrare Zelensky e Putin, unitamente ad Erdogan in qualità di mediatore in questa crisi. Altri predecessori di Guterres si sono prodigati strenuamente per evitare il deteriorarsi di certe crisi.

Molti chiedono a gran voce una riforma della Carta di San Francisco che comporti l’abolizione del diritto di veto, per rendere i cinque membri permanenti, che ne sono i titolari privilegiati, uguali agli altri Stati che compongono l’ONU. Tuttavia, si sostiene che tale riforma sia più facile a dirsi che a farsi. Infatti, proprio le Grandi Potenze che furono all’origine della Carta dell’ONU vollero dotare l’Organizzazione e il suo organo vicario di veri poteri coercitivi, diversamente dalla Società delle Nazioni, riservandosi però il potere di decidere ed eventualmente bloccare l’adozione di certe misure con il diritto di veto. Proprio questo era un correttivo imprescindibile per la nascita dell’ONU. Alcuni, tra cui l’Unione Africana, propongono anche di allargare la cerchia dei membri permanenti per farvi approdare anche nuovi Paesi e garantire una più equa redistribuzione geografica, onde conferire anche ad altri il privilegio del veto, oggi concesso a pochi e da cui sono esclusi i membri temporanei del Consiglio. Tuttavia, questo potrebbe, ad avviso di chi scrive, complicare maggiormente le cose, poiché estenderebbe le probabilità di vedere bloccate decisioni importanti, oggi ridotte a cinque. Del resto, non si è raggiunto il consenso su tali proposte e i membri permanenti continuano ad opporsi a qualsiasi ipotesi di revisione della Carta pur di mantenere inalterati i propri poteri, primo fra tutti quello di veto.

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In realtà, questi aspetti procedurali che impediscono all’ONU di funzionare come dovrebbe sarebbero l’espressione di un male più profondo, ovvero la mancanza di dialogo politico internazionale, in particolar modo tra i cinque Paesi che compongono il CdS. Nel caso della Siria, la Russia ha bloccato diverse risoluzioni  che prevedevano inchieste sull’uso di armi chimiche e si è fermamente opposta all’applicazione di sanzioni contro Bachar Al-Assad, facendosi promotrice di contro-proposte, a loro volta respinte dai Paesi occidentali. Secondo gli analisti, al cinismo di Mosca rispetto ai crimini di Damasco, si contrapporrebbe lo spirito giustizialista dell’Occidente, che antepone la morale alla politica.

I fini comuni per cui i 51 Paesi fondatori delle NU si sono, nel 1945, impegnati ad agire in armonia, ovvero la pace e la cooperazione economica, sociale, culturale e scientifica, stentano ad essere perseguiti efficacemente. Certo, non si può dire che nulla sia stato fatto, il processo di decolonizzazione è stato condotto con successo, numerose crisi sono state affrontate e risolte, le missioni di peace-keeping presidiano efficacemente numerose aree di crisi in tutto il mondo. Durante la Guerra Fredda il sistema onusiano ha permesso talvolta il dialogo tra i due blocchi. Tuttavia, ci si chiede se l’ONU non sia destinata in futuro a rivestire un proprio ruolo prettamente nel campo umanitario, tralasciando quello relativo al mantenimento della pace, in ragione dei numerosi ostacoli in cui incorre.

Quello che si constata con rammarico è che il mondo multipolare di oggi non ha regole condivise né parla un linguaggio comune. In realtà, chi scrive ritiene che ha pochi precedenti nella Storia la comunanza di vedute sul conflitto russo-ucraino, condannato quasi unanimemente dalla comunità internazionale, che si è unita come non mai per disapprovare questa guerra d’aggressione. Ciò non toglie la paralisi del CdS, dal quale il premier Boris Johnson suggerisce di sospendere la Russia, se non addirittura di estrometterla dall’ONU. Ma ritorniamo sempre sullo stesso punto di partenza, il diritto di veto della stessa Russia impedirebbe tali decisioni, a meno che la Russia non decidesse autonomamente di fuoriuscire dal “club”. L’empasse, in realtà, non è imputabile solo alla Russia, poiché anche per le due risoluzioni dell’AG, votate a larga maggioranza, occorre registrare un forte numero di astensioni, soprattutto di Paesi africani. Ci si chiede se tali astensioni africane non abbiano a che fare con la sempre più massiccia presenza della Russia in Africa, come in Mali e nella Repubblica centrafricana, anche in considerazione del fallimento di ex Potenze coloniali in taluni Paesi di questo continente, come la Francia in Mali. O forse l’Africa non intende seguire l’Occidente, che ha spesso voltato lo sguardo rispetto a conflitti che l’hanno vista come protagonista e vittima, come quando si chiedeva la fine della guerra in Algeria.

Quello che certamente emerge è la necessità urgente di riformare il sistema dell’ONU per conferirgli di nuovo credibilità e per mettere l’Organizzazione di nuovo in condizione di garantire la sicurezza globale.


Profilo dell'autore

Maria Stefania Cataleta
Maria Stefania Cataleta
è docente di Operazioni di pace e intervento umanitario presso l'Università Niccolò Cusano, nonché avvocato abilitato innanzi alla Corte Penale Internazionale.
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