La tesi che sposano la Procura e il Governo Federale è che la strage sia da imputare esclusivamente ai corrotti politici del partito di opposizione che hanno consegnato i giovani ai narcos. Se ne esce pubblicamente pure il presidente Enrique Peña Nieto che in una conferenza stampa si alza in piedi alzando il pugno chiuso ed urla: “Todos somos Ayotzinapa!”
Come? Il presidente Nieto? Proprio quel Nieto? Già proprio quello. L’ex governatore mandante della repressione di Atenco, quando il 5 maggio 2006 la polizia ammazzò una persona, ne arrestò oltre 400 persone (di cui 17 sono tutt’ora desaparecidos). Quel Nieto che ordinò di stuprare le 42 donne arrestate per “dare loro una significativa punizione”. Quel Nieto riconosciuto colpevole, graziato e poi eletto presidente dello Stato.
Ma davvero la colpa è tutta del corrotto sindaco Abarca quanto accaduto a Iguala?
Gli studenti rurali, tanti testimoni neutrali, gli stessi giornalisti hanno raccontato che agli scontri hanno partecipato anche federali e militari. “Il punto è proprio questo – sottolinea il direttore de La Journada-. Sono stati arrestati, sino ad ora, solo poliziotti municipali ma non erano loro a sparare ai ragazzi, quella notte”.
Uomini e mezzi dell’esercito sono intervenuti agli scontri. Anche le telecamere di sicurezza lo hanno dimostrato. Il Governo Federale e l’esercito non possono dichiararsi innocente.
“Con questo massacro il Messico si è giocato quella poca credibilità internazionale che gli rimaneva – conclude Hernàndez -. Nieto è riuscito a farsi scaricare anche da alleati storici come il Vaticano e la Casa Bianca, che è anche la paladina di quell’antiproibizionismo che versa ogni anno miliardi di dollari assassini nelle tasche dei narcos. Mi domando allora, se davvero il Governo Federale non sapeva niente e non sta coprendo nessuno, perché pagare un costo politico così elevato? Mi chiedo anche se sia un caso che non ci sia una linea investigativa nei confronti dell’esercito che certo, quella notte, non è stato a guardare. La caserma di Iguala è notoriamente legata al cartello narcos dei Cavalieri Templari. Insomma, il Governo dice che sono stati i narcos. Ma chi sono i narcos in Messico, mi domando?”
¿Dónde están todos?
Intanto i corpi dei 43 ragazzi non si trovano da nessuna parte. La procura federale se ne esce una settimana sì e una no con una risposta differente. Senza peraltro spiegare come sia arrivata a questa ipotesi. “Sono stati gettati in un lago profondo”. Ma non ci sono laghi così profondi nelle vicinanze da non poterci fare una immersione. “Sono stati bruciati nella discarica di Iguala”. Ma aveva piovuto per tutta la settimana. Carbonizzare 43 corpi senza che resti traccia identificabile col Dna comporta un grande falò che dovrebbe ardere per almeno una giornata. Nessuno degli abitanti delle case che danno sulla discarica ha visto qualcosa di simile.
I militari consegnano ad una associazione di medici argentini che seguono il caso come periti di parte dei familiari, un osso di un dito e un dente. Viene identificato come appartenente ad uno studente. Ma i soldati si rifiutano di dire – per motivi di sicurezza nazionale! – dove lo hanno trovato. Intanto, vengono alla luce decine di fosse comuni. Ci sono centinaia di corpi ma nessuno, sino ad ora, appartiene agli studenti di Ayotzinapa.
A metà dicembre la Procura decide di aver fatto abbastanza per degli indigeni. Sospende le ricerche per il periodo della vacanze natalizie con la scusa di attendere gli esiti degli esami sui corpi già trovati nelle fosse. In realtà, vuole lasciar scorrere un po’ d’acqua sotto i ponti, sperando che i media parlino d’altro e che i familiari dei desaparecidos si mettano il cuore in pace, magari accettando la “generosa” riparazione economica offerta dal Governo.
Ma con questa gente qua, hanno fatto male i conti.
Quartiere Meraviglia
San Cristobal de las Casas. Tra le ultime case dell’elegante cittadina del Chiapas e la selva sorge il Quartiere Maravilla. In realtà, è una favella fetente. L’unica “meraviglia” è che la gente riesca a sopravviverci. Eppure, proprio al centro della baraccopoli, troviamo una vasta area ben curata: ci sono scuole, aule studio con computer, case per studenti e maestri, biblioteche, sale riunioni, collegamenti alla rete, serre didattiche. Pure le aiuole sono fiorite. Tutto è pulito e colorato. Le targhe davanti alle aule ricordano Ivan Illich, Immanuel Wallerstein, Raimon Panikkar… Siamo all’Università della Terra, dove i ragazzi dei villaggi zapatisti vengono a studiare dopo le elementari. Qui, dove si sta svolgendo la parte finale del Festival della Rebeldia, incontro il giovane rurale Omar Garcia. Quella notte a Iguala, si è salvato solo perché ha cercato di portare in ospedale un compagno ferito alla testa da una pallottola e tuttora in coma profondo. “I politici al potere, ed anche quelli all’opposizione, ci vorrebbero rassicurare dicendo: tranquilli, prenderemo i colpevoli e li castigheremo. Non hanno capito che non è questo il vero punto della questione. Noi non ci accontenteremo di veder punita la mano che ha ucciso, e neppure il diretto mandante, fosse pure ad alto livello. Quello che noi chiediamo è la messa in stato d’accusa dell’esercito e del sistema politico stesso. Quello che noi vogliamo è una giustizia vera. Quello che noi pretendiamo è terra e dignità. Quello che per cui siamo pronti a morire ancora è la democrazia”.
Feliz año nuevo
Caracol di Oventic. Il papà di Manuel che voleva fare il maestro comincia a parlare. “Siamo indigeni, siamo contadini, siamo poveri. Difendiamo la nostra terra come la nostra vita. Paghiamo un prezzo altissimo alle violenze dei narcos e del Mal Gobierno che vogliono rubarci la terra e la vita. Ma oggi ci hanno inferto un dolore infinito. Dove sono i nostri figli? Sono vivi? Sono morti? Li stanno torturando?”
L’anno nuovo è già arrivato da un pezzo ma nessuno ha voglia di brindare. Dietro il cappuccio nero, gli occhi dei guerriglieri zapatisti si riempiono di lacrime.
Profilo dell'autore
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Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.
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