di Joshua Evangelista
Anche quando armati dei migliori intenti e svuotati da pregiudizi razzisti, sui rom gli italiani hanno elaborato un campo semantico piuttosto rigido e consolidato: nomadismo, baraccopoli, isolamento. Se dici rom pensi a distese sterminate di roulotte, assenza di igiene, strutture a rischio incendi. Insomma, pensi al “campo nomadi”.
Eppure dei quasi 200mila rom residenti in Italia, solo 40mila vivono in container, baracche e così via. La maggior parte dei rom vive in edifici comuni, con le stesse difficoltà e le stesse sfide degli altri cittadini che vivono nell’Italia della crisi nera e della recessione.
Sono loro i soggetti raccontati dalla telecamera del regista Sergio Panariello, che in Fuori campo racconta le vite di donne e uomini rom fuori dal campo che, da Cosenza a Bolzano, lottano tutti i giorni contro le insidie della quotidianità. “L’impresa eccezionale è essere normale”, direbbe Lucio Dalla. Perché per un rom in Italia la normalità è più faticosa, un’eterna lotta contro gli stereotipi, le discriminazioni e la diffidenza che li accompagna in ogni colloquio con l’alter.
In Fuori campo conosciamo Canija, a Bolzano con tre figli, un marito italiano in carcere e l’urgenza di trovare casa. Saed, kosovaro figlio della Scampia meticcia degli anni Novanta, dove giovani rom crescevano tra universitari, spacciatori e camorristi; ora vive a Rovigo, ha cinque figli, paga il mutuo per la casa e fa il rappresentante sindacale in fabbrica. Seguiamo Luigi, netturbino di Cosenza “figlio” di una migrazione rom datata 1300; la sua casa è all’interno di un campo in muratura, un ghetto istituzionalizzato dal comue e i continui blitz della polizia lo spingono a fuggire in un altro quartiere, lontano dagli affetti. E infine Lorenzo, che rom non è, ma che passa le sue giornate nel campo di Firenze frequentando la moschea.
La forza del documentario è la scelta di non spettacolarizzare, di non cercare storie incredibili per forzare l’empatia, di non sottomettere la poetica alle esigenze dell’attivismo. Le storie di Saed, Luigi e gli altri sono storie normali, nelle quali molti di noi possono riconoscersi. “Sei troppo normale per essere un rom” è la tipica frase che il giovane capofamiglia kosovaro si sente dire spesso a lavoro.
Del resto Fuori dal campo, prodotto da Figli del Bronx e OsservAzione, non si limita a raccontare una generazione rom. Il film racconta l’Italia. Perché se a Bolzano esiste un welfare e delle istituzioni sane che smantellano i campi e supportano il passaggio alle case popolari, o almeno ad appartamenti non isolati, a Cosenza la giunta fa una speciale graduatoria riservata solo a rom per ghettizzarli in un complesso di cemento degradante e isolato, raggiungibile da una sola strada. Dove delinquenti e persone perbene, accomunate solo dall’essere rom, sono costrette a condividere pochi metri quadri e decine di controlli della polizia, casa per casa.
Frutto di un lungo e intenso lavoro di ricerca di antropologi, educatori, artisti e attivisti rom e non rom, il film evidenzia il fondamento dell’idea di Bernard Shaw, secondo il quale l’americano bianco “relega il negro al rango di lustrascarpe e ne conclude che è solo capace di lustrare scarpe”.
A fine proiezione abbiamo un interrogativo ben preciso: perché l’Italia è diventato il “paese dei campi”, esempio isolato nel resto d’Europa? Dei 40mila rom che vivono in insediamenti abusivi o in villaggi attrezzati molti appartengono alla quarta generazione, nati e cresciuti in una vera e propria condizione di apartheid.
Se da un lato c’è da fare un forte lavoro culturale e di comunicazione, che vada oltre la narrazione del rom sporco che non vuole abbandonare la sua condizione di nomadismo, dall’altra c’è da sradicare la strategia istituzionale diretta alla conservazione di questi non luoghi che sono i campi.
Si pensi all’amministrazione De Magistris a Napoli, che lo scorso 15 maggio ha approvato la costruzione del “villaggio Rom a Scampia”: 7 milioni di euro per edificare 75 alloggi per soli rom a via Cupa Perillo. Un incredibile sperpero di soldi pubblichi per perpetuare l’idea che il ghetto è il male minore. Un’idea che ha sempre fatto comodo a molti, Mafia Capitale docet.
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