“I nostri nonni vivevano in campi profughi. I nostri genitori anche. Noi lo stesso. Dormiamo in tende da quattro generazioni. Credo che sia abbastanza. Meritiamo di vivere come tutte le altre persone del mondo”. Mohamed è nato 26 anni anni fa e da sempre ha vissuto sotto una tenda, al campo profughi per rifugiati palestinesi di Daraa, in Siria, al confine con la Giordania. La sua famiglia vive sotto una tenda da quando i suoi nonni nel 1948 furono costretti a trasferirsi in Siria dalla città palestinese di Tibirias. “Ho sempre studiato e fatto del mio meglio fino a quando nel 2011 è scoppiata la guerra in Siria. Tutto è iniziato con delle dimostrazioni pacifiche. La reazione del regime di Assad è stata molto violenta, ha cominciato a sterminare giovani, donne e bambini. Poi sono arrivate le forze iraniane, sono state terribili. La mia famiglia ha nuovamente visto negli occhi la morte, è da lei che siamo nuovamente scappati. Mia madre è fuggita in Libano. Io, invece, con altre 50 famiglie, ho preso un’altra strada. Era notte, abbiamo camminato al buio, tra le rocce, nei sentieri per non farci vedere. Tanti i bambini piccoli con me, ci sostenevamo a vicenda. A Swieda siamo riusciti a trovare delle macchine e abbiamo attraversato il deserto. Un viaggio terribile durato 18 ore, siamo così arrivati a Dier Azzor”.
“Ci siamo poi diretti a Raqqa, capitale dello Stato Islamico. Li siamo stati minacciati con i coltelli e ci hanno arrestato, per dieci lunghe ore. Dieci ore di paura. Una volta liberati ci siamo subito messi in viaggio verso le campagne di Aleppo. Abbiamo provato ad entrare legalmente dalla frontiera turca ma siamo stati mandati indietro. Quindi abbiamo passato la frontiera di notte illegalmente, con tutte le famiglie e i bambini a seguito. Il nostro unico rifugio è stato in una fabbrica dismessa, a pochi metri dal border”.
L’esodo dı Mohamed e dei suoi compagni di viaggio non è finito dopo il confine turco. “Non abbiamo acqua potabile, le condizioni igieniche sanitarie sono precarie. Usiamo una stanza come aula per i nostri figli. Una mamma, che una volta era insegnante d’inglese, fa il possibile per istruire tutti i bambini del campo. Mi hanno proposto più volte di entrare a far parte di bande criminali. Ma mia madre mi ha insegnato saldi valori. Ho assistito a troppe uccisioni da parte del regime di Assad e da parte delle forze iraniane”.
“Avevo la speranza che un futuro migliore fosse possibile, quindi ho preso un bus sono arrivato a Istanbul, dopo giorni di viaggio. Avevo trovato un lavoro, ma dopo un mese in cui non sono mai stato pagato sono rientrato al campo di Kilis. Poi un giorno il cancello che ci separa dal mondo si è aperto, sono entrate le autorità governative turche e ci hanno imposto di lasciare il campo. Le famiglie si dovranno trasferire a 500 km, al campo di Mardin, in pieno deserto, intorno solo il vuoto. Il campo si trova al confine con il Kurdistan. Una zona di battaglia, ci sono attacchi continui tra Curdi e Isis. Le nostre famiglie hanno paura. Mentre i giovani uomini soli al campo non sono accettati e verranno lasciati in strada”.
La storia dı Mohamed è stata raccolta dall’associazione italiana “We Are”. Ne è nato un appello diretto all’Ambasciata Turca a Roma. “Ci sara mai un posto per noi in questo immenso mondo? Nessuno lo sa! Siamo gente senza casa. E’ dal 1948 che non abbiamo pace e un posto dove stare. Siamo stanchi”.
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