di Alessandro Pagano Dritto / @paganodritto
Il 2015 inizia per la Libia con una doppia valenza: da un lato, quello diplomatico, riprendono finalmente le sedute del Dialogo Nazionale che però dal 14 gennaio si svolgono in gran parte nella città svizzera di Ginevra; dall’altro si assiste ad una ripresa dei venti di guerra che questa volta, però, potrebbero non riguardare la sola Libia.
La via diplomatica: il Dialogo Nazionale riprende, una parte di Tripoli boicotta.
Nonostante i bombardamenti su Misurata portati avanti dal governo di Tobruk ai primissimi giorni del mese – 3 e 4 gennaio – e quindi una perdurante aria di tensione tra le parti, il 14 gennaio 2015 la United Nations Support Mission in Libya (Missione delle Nazioni Unite di Supporto in Libya, UNSMIL) e il suo presidente Bernardino Leon riuscivano finalmente a realizzare una nuova seduta del Dialogo Nazionale.
Tutto sa di nuovo inizio, dopo una sessione a Ghadames il 29 settembre 2014 e una presentazione priva di seguito a Tripoli l’11 ottobre successivo: in mezzo, soprattutto, quel periodo in cui la Capitale è riuscita a imporsi come partecipante legittima al Dialogo, dichiarando prima lo stesso Leon persona non grata e poi facendosi forza del verdetto con il quale, il 6 novembre 2014, la Corte Suprema delegittimava il governo della Libia orientale.
Eppure nemmeno questo nuovo inizio si presenta privo di difficoltà. Proprio Tripoli decide di non partecipare a queste prime sessioni, additando come scusa la sede del Dialogo, identificata dall’UNSMIL nella città svizzera di Ginevra: parlando alla nazione, il presidente del General National Council (Consiglio Generale Nazionale, GNC) Nuri Abu Sahmain spiega le ragioni di questa assenza e la pagina Facebook dello stesso parlamento tripolino le riassume così:
«La commissione per il Dialogo Nazionale del GNC ha sottolineato a Leon che dovrebbero esserci degli standard per scegliere le parti e le sedi coinvolte, ma l’UNSMIL ha avuto fretta di annunciare il luogo e i nomi dei partecipanti prima di riferirli al GNC, il che potrebbe condurre al fallimento del Dialogo o a raggiungere risultati che non potrebbero essere applicabili sul terreno».
Lo stesso Leon, nella conferenza stampa tenuta a Ginevra il 14 gennaio ammette di ignorare il motivo esatto per cui Tripoli si sia ritirata all’improvviso dai colloqui, ma invita la formazione della Libia occidentale a partecipare non appena pronta a farlo: un modo per dire, forse, che i colloqui non sono disposti a fermarsi ma vogliono comunque essere inclusivi. Anzi, per dire la verità sottolinea che non tutta la compagine politica tripolina ha rifiutato di presenziare a Ginevra.
Leon in questo frangente non appare chiarissimo nel delineare chi, da Tripoli, non abbia presenziato. Può allora forse venire in soccorso un tweet dell’analista Mohamed Eljarh, non certo incline ad indulgenze o particolari vicinanze col GNC, che il 18 gennaio specifica che a mancare è solo una formazione che lui indica col nome di Blocco dei Martiri:
Not correct to say #GNC refusing the Geneva talks. JCP& the 94 group have all welcomed the dialogue. Only Martyrs bloc boycotting. #Libya
— Mohamed Eljarh (@Eljarh) 18 Gennaio 2015
Comunque sia, nella stessa conferenza stampa Leon invita a non illudersi nel pretendere cambiamenti rapidi: i cambiamenti e i risultati verranno, ma con i tempi dovuti e gradualmente. Innanzi tutto, dice, sarà necessario ottenere un governo di unità nazionale che ponga fine al conflitto tra le parti e al problema diffuso della sicurezza. Per questo non si parlerà solo con i rappresentanti politici, ma nel corso del Dialogo Nazionale si incontreranno anche i leader tribali e militari che costituiscono le altre voci dello scenario.
Il 15 gennaio, infine, conclusa la prima sessione di colloqui, Leon specifica che nei colloqui si è parlato dei seguenti argomenti: detenzioni illegali, rapimenti, rifugiati interni ed esterni, aiuti umanitari nelle zone interessate al conflitto, fine dei messaggi politici, religiosi o mediatici che non promuovano la tolleranza e l’unità nazionale, questione dei trasporti di ogni tipo – aerei, terrestri e navali – all’interno del paese e con gli altri paesi, libertà di movimento dei cittadini, consegna dei salari senza discriminazioni di qualsiasi tipo, distribuzione da parte delle istituzioni governative dei beni di prima necessità secondo i corretti meccanismi.
Il 18 gennaio Tripoli comunica la decisione di prendere parte al completo alle successive sedute del Dialogo Nazionale, chiedendo però che queste si tengano in Libia: propone come sede la città di Ghat. Dal 26 al 29 gennaio, però, la seconda sessione del Dialogo Nazionale, con la partecipazione delle autorità civili di alcune paesi e città libiche, si tiene ancora a Ginevra, Svizzera. Questa volta, si legge in uno dei comunicati di riferimento, oggetto delle discussioni sono il governo di unità nazionale e la questione della sicurezza: soprattutto si discute di «un cessate il fuoco permanente e comprensivo insieme con un effettivo meccanismo di monitoraggio e misure per il ritiro dei gruppi armati dalle città, in particolar modo dalla capitale, così da permettere al governo di lavorare in un contesto produttivo e stabile».
Risultato immediato della seconda sessione è un accordo tra Misurata e Twergha sui prigionieri delle carceri misuratine, affinché gli inviati di Tawergha possano visitarli e questi essere liberati; il tutto con la mediazione della stessa UNSMIL. Si ricorda qui al lettore che il contrasto tra le città di Misurata e della vicina città di Tawergha risale alla primavera del 2011, quando quest’ultima fu accusata dalla prima di sostenere le formazioni lealiste gheddafiane durante un lungo assedio. L’11 febbraio Tripoli e Tobruk partecipano, per la prima volta senza assenze, alla nuova sessione del Dialogo Nazionale, tenuta questa volta all’interno dei confini libici: di nuovo a Ghadames.
La via non diplomatica: il casus belli dello Stato Islamico a Sirte
La svolta potrebbe essere indicata nel 14 febbraio 2015, quando uomini armati attaccano alcuni palazzi pubblici della cittadina costiera di Sirte, a suo tempo culla e tomba del Colonnello Muammar Gheddafi. Una decina di giorni prima altri uomini armati, o forse gli stessi, avevano attaccato, con un bilancio finale di 12 morti, le strutture petrolifere di Mabrouq, un sito a circa 170 Km dalla città in direzione sud.
La notizia più datata tra le due non aveva sollevato molto scalpore, mentre quella secondo cui un gruppo identificato con uomini dello Stato Islamico avesse issato la propria bandiera su Sirte e, riportano alcune cronache, diffuso dalla stazione radio cittadina i proclami di al Baghdadi, getta nello scompiglio l’opinione pubblica italiana.
Esiste un articolo di Cristiano Tinazzi sulla questione, il quale sottolinea come nell’arco di un paio di giorni nei media italiani si cominci a dire, su Sirte e lo Stato Islamico in Libia, di tutto e di più. Rimandando il lettore curioso dei dettagli alla lettura del pezzo, per il momento si dirà qui solo che appena pochi mesi fa, ai primi di dicembre, il Generale David Rodriguez del Pentagono – la sede delle forze armate statunitensi – si esprimeva con molta cautela sullo sviluppo della formazione in terra di Libia, parlando di «circa un paio di centinaia» di unità all’Est utilizzate impegnate soprattutto nell’allestimento di campi di addestramento.
Certo, la situazione di Sirte deve essere vagliata con attenzione: sarebbe il primo caso riconosciuto in cui nuovi miliziani dello Stato Islamico in Libia palesano la propria presenza in una città che non sia il feudo orientale di Derna con l’intenzione esplicita di prenderne il controllo. Di qui a dire, come si può forse sentire talvolta almeno a livello di opinione comune, che lo Stato Islamico stia prendendo il controllo della Libia, ce ne corre. A parere di chi scrive anche l’uso del verbo «avanzare», di solito riferito agli eserciti o a gruppi militari più o meno compatti, dovrebbe essere usato con più parsimonia: suggerisce infatti scenari che in Libia non sembrano al momento tra i più reali. Non esiste alcun esercito dello Stato Islamico che in Libia si stia muovendo da una parte all’altra del paese assoggettando questa e quella città e che abbia in Derna l’equivalente di una Raqqa siriana. Esistono piuttosto singoli gruppi di miliziani – le classiche «cellule dormienti» che possono agire in qualsiasi punto della Libia e issare, che a Derna lo si sappia o no, una bandiera dello Stato Islamico: in questo senso, come si vedrà, Sirte non è stata né la prima né l’ultima operazione attribuibile allo Stato Islamico libico, ma forse solo la più mediatizzata dall’altra parte del Mediterraneo.
Nè è stata un’operazione incontrastata: giacendo la città nel territorio di influenza delle milizie misuratine, pare si sia recato sul posto il 166° battaglione della coalizione militare occidentale e la giornalista freelance italiana Nancy Porcia, che si è recata a Sirte proprio con i miliziani misuratini, ha confermato la presenza nell’area di entrambi gli schieramenti.
Appena rientrata da #Sirte: la bandiera nera è al centro della città. negoziati in corso tra #IS e forze #Misurata #Libia — nancy porsia (@nancyporsia) 24 Febbraio 2015
I suoi tweet confermano però anche un’altra cosa molto interessante: cosa quelli della coalizione occidentale, diciamo per brevità le autorità di Tripoli, pensino dello Stato Islamico a Sirte e presumibilmente altrove in Libia. Almeno a Sirte lo Stato Islamico sarebbe composto, almeno secondo le milizie misuratine che vi si stanno confrontando anche attraverso mediazioni, da ex elementi di Ansar al Sharia supportati da quelli che nel primo conflitto erano lealisti gheddafiani.
#ISIS a #Sirte sono ex #AnsarAlSharia supportati da tribù gheddafiane #libia, fonti #Misurata
— nancy porsia (@nancyporsia) 22 Febbraio 2015
Totalmente diversa invece l’interpretazione che di queste formazioni dà il governo di Tobruk, notoriamente ostile all’islamismo politico senza andarci troppo di fino: secondo Tobruk lo Stato Islamico libico è proprio lo Stato Islamico di al Baghdadi che dichiara guerra all’occidente e domina con la violenza i territori dove riesce a radicarsi. Non è un caso che le dichiarazioni rilasciate in questo mese dal governo orientale invochino persino un intervento internazionale in Libia e mettano continuamente all’erta i paesi vicini alla Libia così come quelli oltre il mare sulla pericolosità dello Stato Islamico in Libia, vera e propria minaccia per tutti. Bastino come esempio le parole pronunciate al vertice del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a New York dal Ministro degli Esteri di Tobruk Mohamed al Dairi:
«Il gruppo terrorista ISIS e i suoi alleati lavorano instancabilmente per uccidere e assassinare persone innocenti, distruggere le infrastrutture e le econmie dei paesi e per offrire uno spazio sicuro per i terroristi di varie nazionalità. Questa è una minaccia per la Libia e per gli altri Stati, in particolare per gli Stati confinanti» (p. 4).
Tornando ancora una volta al prezioso lavoro svolto dalla giornalista Nancy Porsia, sembra utile almeno segnalare al lettore l’intero reportage scritto per il foglio tedesco Deutsche Welle, grazie al quale si può avere un’idea più precisa e realistica della presenza in città dei miliziani dello Stato Islamico. Secondo quanto riportato, lo Stato Islamico arriverebbe a Sirte in un momento di difficoltà della principale milizia presente in precedenza, Ansar al Sharia, installatasi in città dopo il 2011 per approfittare di un sostanziale vuoto organizzativo: la morte del principale comandante del gruppo, Ahmed Attir, nel 2014, avrebbe lasciato i suoi uomini privi di una reale guida e avrebbe indebolito la formazione. Con l’inasprisrsi della stretta governativa sui miliziani dell’Est, alcuni membri dello Stato Islamico sarebbero giunti a Sirte da Derna e le autorità tripoline ne conterebbero circa 500 di cui un centinaio non libici: tunisini, algerini, afghani.
Il reportage dipinge tutt’altro che una città sulla quale gli uomini dello Stato Islamico possano vantare un pieno controllo. Piuttosto, sarebbero asserragliati nel quartiere di Sabha e più che di gruppi armati si tratterebbe di cecchini impossibilitati a far valere del tutto la propria volontà: i negozi che loro vorrebbero far chiudere sono rimasti in parte aperti, quando all’università hanno imposto agli studenti la divisione per sessi, nessuno ha più frequentato le lezioni.
La via che potrebbe non essere diplomatica: il punto di vista italiano
Il 15 febbraio 2015 sarà forse una data da ricordare nella storia dei rapporti tra Italia e Libia: l’ambasciata italiana a Tripoli
Arrivato in patria, l’ambasciatore Giuseppe Buccino Grimaldi rassicura che lo Stato Islamico non ha il controllo della Capitale o di Sirte, ma il peggioramento della già precaria situazione della sicurezza – si intuisce – ha suggerito la manovra. Punto di svolta, in questo caso, potrebbe essere stato l’attacco all’Hotel Corinthia, hotel prediletto dai rappresentanti stranieri in visita e attuale residenza del Primo Ministro Omar al Hassi: nell’attacco, il 27 gennaio, sono morte nove persone inclusi gli attentatori, un cittadino statunitense e uno francese. Anche quell’attacco fu rivendicato dallo Stato Islamico e anche quella volta Tripoli accusò i vecchi sostenitori di Gheddafi di complottare ai danni suoi e della rivoluzione del 2011, rivoluzione della quale Tripoli si considera l’autentica depositaria.
Lo stesso giorno dell’evacuazione dell’ambasciata, la Ministra della Difesa Roberta Pinotti rilascia un’importante intervista a Marco Ventura del quotidiano romano Il Messaggero: questo testo costituisce ad oggi il documento più interventista prodotto da una fonte governativa italiana. Le prime righe già recitano:
«L’Italia è pronta a guidare in Libia una coalizione di paesi dell’area, europei e dell’Africa del Nord, per fermare l’avanzata del Califfato che è arrivato a 350 chilometri dalle nostre coste. Se in Afghanistan abbiamo mandato fino a 5mila uomini, in un paese come la Libia che ci riguarda molto più da vicino e in cui il rischio di deterioramento è molto più preoccupante per l’Italia, la nostra missione può essere significativa e impegnativa, anche numericamente». Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, pesa le parole. «Ne discutiamo da mesi, ma ora l’intervento è diventato urgente».
Anche se in merito all’intervento la Ministra si affretta a precisare che «stiamo parlando di ipotesi, non c’è nessuna decisione», evidenzia come tangibile il rischio di una Libia in mano allo Stato Islamco; del quale – pare di capire – conta circa 30000 unità o più. «Il rischio è imminente, non si può aspettare oltre», si legge, e la possibilità concreta è quella di una coalizione dei paesi vicini alla Libia nella quale «l’Italia immagina d’avere un ruolo di leadership in Libia come l’abbiamo avuto in Libano, per motivi geografici, economici, storici».
Sullo spazio lasciato alla diplomazia Pinotti dice: «Seguiamo e favoriamo i tentativi dell’inviato dell’Onu, che ha fatto passi avanti senza però giungere a una conclusione che eviti alla Libia di cadere nelle mani dell’Isis. L’avanzata del Califfato è tumultuosa e preoccupante non tanto a Derna, dove da tempo il jihadismo è forte, quanto a Sirte e a Tripoli, dopo l’attentato efferato e simbolico all’Hotel Corinthia che ospita le delegazioni internazionali».
Almeno un’altra esternazione, cronologicamente piuttosto vicina a questa, si deve ricordare prima di procedere: quella del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che intervistato nel corso di un’apparizione televisiva arriva a dire che l’Italia è pronta a «combattere» – il verbo usato è proprio questo – l’ISIS: la risposta della formazione è quella di indicare Gentiloni con la formula «Ministro dell’Italia crociata».
Nell’immediato non mancheranno altre dichiarazioni favorevoli a un immediato intervento militare – si legga soprattutto l’intervista concessa sempre il 15 febbraio dal presidente del COPASIR (Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica) Giacomo Stucchi ad Alberto Maggi di Affari Italiani – ma già poche ore dopo l’uscita della sua intervista la Ministra della Difesa twittava un messaggio che in parte sembrava ridimensionare i toni.
#Libia:avanzata #Isis preoccupa. Italia pronta a fare la propria parte in missione Onu. Ora sosteniamo lo sforzo diplomatico — Roberta Pinotti (@robertapinotti) 15 Febbraio 2015
Ci penseranno alcune dichiarazioni di vari esponenti dello Stato e di personalità politiche a innestare la faccenda su un’altra via, più diplomatica: per esempio il Capo di Stato Maggiore in fine di mandato Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli intervistato da Fabrizio Caccia del Corriere della Sera, l’ex Primo Ministro Romano Prodi tramite la penna di Giampiero Calapà del Fatto Quotidiano.
Ma è forse doveroso ricordare qui soprattutto lo stesso Ambasciatore Giuseppe Buccino Grimaldi, che meno di dieci giorni dopo il suo rientro da Tripoli, esattamente il 23 febbraio, partecipa a una conferenza dell’Istituto Affari Internazionali perorando la causa della risoluzione diplomatica del conflitto tra le due maggiori realtà politiche del paese.
La via non diplomatica: l’intervento egiziano e le autobombe di al Qubbah
Prima di chiarire gli ulteriori sviluppi della via diplomatica apparentemente parzialmente messa in dubbio dopo le dichiarazioni della Ministra Pinotti, sembra utile riprendere il filo degli eventi – che si era interrotto con la rivelazione della presenza dello Stato Islamico a Sirte – e capire cosa è successo dopo: tutto nel brevissimo lasso di tempo di appena qulche giorno.
Sempre il 15 febbraio – lo stesso giorno, quindi, della chiusura dell’ambasciata italiana a Tripoli e dell’intervista della Ministra della Difesa Roberta Pinotti – lo Stato Islamico libico rilascia un video che mostrerebbe la decapitazione di 21 egiziani copti nelle spiagge di Sirte. La reazione egiziana è immediata e si promette subito pesante già dalle prime dichiarazioni: non passa nemmeno un giorno che all’alba del 16 febbraio l’aviazione del Cairo in coordinazione con quella del governo libico orientale conduce dei raids nei dintorni della città di Derna. Secondo Saqer al Joroushi, il capo dell’aviazione orientale già uomo del Generale Khalifa Hafter e messo in carica dal parlamento il 18 gennaio, i miliziani uccisi negli attacchi sono tra i 40 e i 50. Secondo Amnesty International nel computo dovrebbero annoverarsi anche alcuni civili, ma l’Egitto nega che ciò sia vero.
Non è finita qui. Il 20 febbraio, quindi a quattro giorni appena dai raid su Derna, ad al Qubbah esplodono alcune autobombe provocando almeno 42 morti e 70 feriti. A memoria di chi scrive, è il più grave attentato dichiarato come terroristico accaduto sul suolo libico almeno dall’inizio del secondo conflitto se non addirittura dal 2011. L’azione è rivendicata dallo Stato Islamico libico, «provincia di Barqa» – nome arabo della Cirenaica, la Libia orientale – ma a sembrare – andrebbe accertato da indagini indipendenti – densa di significato è la scelta del luogo dove colpire: al Qubbah è infatti, come conferma il comunicato di condanna firmato dall’UNSMIL, la città natale del presidente della House of Representatives (Casa dei Rappresentanti, HOR) Ageela Saleh Issa.
La via diplomatica: il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 18 febbraio 2015
Su richiesta egiziana il 18 febbraio 2015 si riunisce il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dove la Libia – Tobruk – e
alcuni Stati vicini alla Libia fanno il punto della situazione e decidono il da farsi.
A dire la propria sono, dopo il rappresentante dell’UNSMIL Bernardino Leon, il Ministro degli Esteri libico Mohamed al Dairi, quello egiziano Sameh Shoukry, il Ministro algerino delegato per il Maghreb e gli Affari africani Abdelkhader Messahel, il rappresentante permanente italiano Sebastiano Cardi e quello tunisino Mohammed Khaled Khiari.
L’Egitto si presenta forte di un’alleanza militare ormai consolidata ed esplicita col governo orientale di Tobruk, nonché del recentissimo bombardamento condotto su Derna: ha dimostrato che se vuole può colpire e far male e soprattutto che non è disposto a perdere tempo con le milizie islamiste dell’Est libico. Esordisce Shoukry:
«Sono venuto al Consiglio per affermare che ciò che difatti è richiesto è l’adozione di posizioni forti e sincere e di misure concrete per affrontare i pericoli imposti da Daesh e dai suoi simili, che sono avvezzi solo al linguaggio della violenza criminale e agli assassinii. Sono venuto qui per dire che il sangue degli egiziani è prezioso, esattamente come quello di qualsiasi altra vittima di atti puramente barbarici. Io credo che questi meritino la nostra serietà nel combattere questo flagello in ogni angolo della terra».
E il discorso procede infatti su un tono molto pragmatico proponendo tre misure da realizzare per favorire la vittoria di Tobruk nel conflitto in corso. Varrà la pena riportarle integralmente in traduzione:
«Primo, le restrizioni legali messe in piedi circa la possibilità del governo legittimo e dell’esercito nazionale libico di procurarsi i mezzi necessari per difendersi dovrebbero essere alleggerite così che possa essere possibile affrontare il terrorismo e ottenere stabilità e sicurezza.
Secondo, misure concrete dovrebbero essere prese per prevenire il recupero di armi da tutte le milizie non statali e dalle entità attraverso l’imposizione di un blocco navale sulle armi inviate alle aree della Libia escluse dal controllo delle autorità legittime.
Terzo, gli Stati che desiderino assistere il governo legittimo nel contrasto al terrorismo e nell’imporre la sicurezza, dovrebbero avere il permesso di farlo alla luce delle grandi difficoltà che il governo legittimo affronta a questo riguardo, a condizione che questa assistenza sia data in coordinazione col governo libico e con la sua approvazione» (p. 7)
In pratica si tratterebbe di alleggerire l’embargo attualmente previsto dalla risoluzione 2174 delle Nazioni Unite del 27 agosto 2014, ma solo a favore di Tobruk, rinforzare invece la sorveglianza sulle aree non sottoposte al controllo del governo riconosciuto e, se si vuole e se Tobruk è d’accordo, intervenire direttamente a fianco del governo orientale.
Va da sé che l’unione di intenti con l’Egitto galvanizzi anche il governo orientale, che infatti si presenta a New York chiedendo proprio un maggiore supporto per sé. Pur escludendo esplicitamente la richiesta di un intervento internazionale, Mohammed al Dairi chiede che
«la comunità internazionale […] si assuma le proprie responsabilità legali e morali nel provvedere un sostegno urgente, prima cosa e più importante, attraverso la ricostruzione e il riarmo delle nostre forze armate, così che possano entrare in azione» (p. 4)
e spiega che «il governo libico ha fatto fraternamente appello all’Egitto perché sostenga l’esercito libico nel confronto col terrorismo».
Qualcosa di molto simile a ciò che l’inviato Ibrahim al Dabbashi aveva chiesto alla riunione del Consiglio di Sicurezza appena due mesi prima, il 17 dicembre 2014.
Non è impossibile pensare che l’Egitto e Tobruk ritenessero di aver tracciato una strada con l’intervento su Derna del 16 febbraio e forse la convocazione di un Consiglio appena due giorni dopo doveva nelle loro ipotesi confermarne la bontà, dimostrare che non solo loro avevano in mente questo preciso indirizzo. Se questa fu l’intenzione, non ha avuto successo: di diverso avviso si sono dimostrate infatti al Consiglio Algeria, Tunisia e Italia, che molto più delle altre due parti hanno calcato il tasto del Dialogo e della soluzione politica al conflitto libico, senza promettere alcun rifornimento di armi o alcun alleggerimento unidirezionale dell’embargo.
«Il dovere della comunità internazionale è di portare tutti i possibili mezzi politici e diplomatici per supportare, incoraggiare e promuovere quell’unico diritto»
dice il rappresentante algerino.
«La missione dovrebbe essere dotata del mandato, dei mezzi e delle risorse necessarie ad accelerare il dialogo politico, stabilizzare e assistere un nuovo quadro di riconcilizaione e un nuovo governo di unità nazionale in Libia» (p. 10)
sostiene l’Italia per voce di Sebastiano Cardi.
Today at #UNSC: Italy is ready to take a leading role in the framework of @UN initiative for stabilization of #Libya pic.twitter.com/75ZZlLOxT1
— Sebastiano Cardi (@sebastianocardi) 18 Febbraio 2015
«Considerato il deterioramento della situazione in Libia, dobbiamo essere uniti nello sforzo di dare la precedenza ad una soluzione politica. Qualsiasi opzione che aggiri una soluzione politica, semplicemente esacerberà e complicherà ulteriormente la situazione» (p. 11) è infine la parola tunisina. Non è un caso, forse, che il Consiglio venga salutato con favore dal parlamento di Tripoli, che con un intervento internazionale a fianco di Tobruk ha solo da perderci: dalla propria pagina Facebook si compiace dell’esito del vertice e critica solo la mancata condanna esplicita dei bombardamenti egiziani, da lui interpretati come una lesione alla sovranità nazionale libica.
La questione del governo di unità nazionale.
Con sempre maggiore frequenza l’espressione «governo di unità nazionale» sì è andata diffondendo tra gli esperti di Libia e gli attori internazionali che hanno a che fare con la crisi libica. Presente sin da subito nei programmi del Dialogo Nazionale libico patrocinato dalle Nazioni Unite, questo governo unitario è diventato una priorità da raggiungere il prima possibile per avere un referente unico e certo con il quale agire in qualche modo ancora da definire nello scenario del paese nordafricano.
Mentre il 18 febbraio a New York il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ragionava in materia di Libia, a Roma il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni riferiva sulla stessa materia in parlamento e pronunciava parole molto simili a quelle pronunciate dall’inviato Sebastiano Cardi al di là dell’Atlantico; aggiungendo qualche scadenza di riferimento:
«Una tappa cruciale sarà poi rappresentata, nelle settimane successive, dal prossimo rinnovo della missione UNSMIL – quella sulla Libia – che il Consiglio di Sicurezza dovrà decidere il 13 marzo prossimo. Noi stiamo lavorando, con i nostri partner che siedono in Consiglio di sicurezza, perché la missione venga dotata di un mandato, dei mezzi e delle risorse in grado di accelerare il dialogo politico per stabilizzare e dare assistenza a un nuovo quadro di riconciliazione e a un nuovo Governo di unità nazionale in Libia. In questo processo l’Italia è pronta ad assumersi responsabilità di primo piano. Siamo pronti a contribuire al monitoraggio del cessate il fuoco. Siamo pronti a contribuire al mantenimento della pace. Siamo pronti a lavorare per la riabilitazione delle infrastrutture, per l’addestramento militare, in un quadro di integrazione delle milizie nell’esercito regolare. Siamo pronti a curare e a sanare le ferite della guerra e siamo pronti a riprendere il vasto programma di cooperazione con la Libia, sospeso la scorsa estate a causa del conflitto. La popolazione civile deve avere chiari i vantaggi della riconciliazione da parte dell’intera comunità internazionale»
Sarà allora utile vedere come la questione del governo unitario è vista dalle parti interessate.
Come si è scritto, alle prime sessioni del Dialogo Nazionale in gennaio era stata Tripoli a boicottare le iniziative, sostenendo che il Dialogo dovesse tenersi in Libia e non in Svizzera o altrove fuori dai confini nazionali libici. Possibile che per un governo non legittimato dal riconoscimento internazionale ospitare nel proprio territorio la sede del vertice sia un granade valore simbolico cui appigliarsi: non per niente la città proposta dal General National Council (Consiglio Nazionale Generale, GNC) era stata Ghat, mentre poi ci si è accordati per un ritorno a Ghadames, la stessa città del confine occidentale con l’Algeria che il 29 settembre 2014 aveva ospitato la primissima sessione del Dialogo. E a Ghadames, 11 febbraio 2015, Tripoli aveva finalmente partecipato.
Alla fine di febbraio la situazione appare capovolta: è Tobruk adesso, che minaccia di non partecipare alle sessioni del Dialogo Nazionale, in barba persino a un documento dell’Unione Europea che il 9 febbraio minacciava di sanzioni chiunque ostacolasse il Dialogo patrocinato dalle Nazioni Unite. E non si vede, francamente, come la mancanza di una parte su due possa non costituire un ostacolo per un dialogo, si chiami questa parte Tripoli o Tobruk.
Probabilmente il punto è che tra l’11 febbraio e la fine del mese, che non ha visto altre riunioni, si devono considerare lo Stato Islamico a Sirte, il bombardamento egiziano di Derna, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e gli attacchi di al Qubbah, tutti eventi che hanno cambiato qualcosa nella politica del governo della Libia orientale. Lo scalpore provocato dalla notizia dello Stato Islamico a Sirte e poi dal video dei 21 egiziani copti, ha evidentemente favorito l’immagine del governo di Tobruk, che ha tentato di porsi come unico interlocutore possibile e leale, genuinamente ostile allo Stato Islamico e ai gruppi islamisti, presente in Libia.
D’altronde Tobruk può contare sulla legittimità internazionale e sulla vittoria delle regolari elezioni del giugno 2014, tanto che il suo Primo Ministro Abdallah al Thanni dichiarava il 16 febbraio: «La linea rossa, ciò a cui noi non possiamo rinunciare, è la legittimità della HOR eletta». Sembrerebbe impossibile conciliare questa affermazione con la creazione di un governo di unità nazionale che fonda insieme Tripoli e Tobruk risolvendo quindi il conflitto fra le parti: solo un cedimento concreto e praticamente totale di Tripoli potrebbe far sì che la HOR diventi senza mutamenti, o mantenendo comunque in sostanza la propria identità, il parlamento nazionale.
Forse una spiegazione a questa apparente contraddizione potrebbero offrirle le parole dell’ambasciatrice di Tobruk a Washington, Stati Uniti, Wafa Bugaighis, che sottolinea nelle battute finali della sua intervista resa alla CNN il 24 febbraio:
«Un’altra cosa con cui la comunità internazionale può aiutare a questo punto è chiarire una preoccupazione che si è osservata della HOR in quanto corpo eletto democraticamente: che questo corpo democraticamente eletto continui il proprio mandato costituzionale monitorando e formando il nuovo governo di unità nazionale. Vorremmo che il supporto nei suoi confronti fosse più inclusivo e che [la HOR] continui questo ruolo perché rappresenta veramente le aspirazioni del popolo libico per una nazione democratica».
Insomma, Tobruk non ostacolerebbe la formazione di un governo di unità nazionale come esito naturale del Dialogo patrocinato dalle Nazioni Unite – d’altronde né Tripoli né Tobruk si sono mai tirate fuori, almeno in linea di principio e senza possibilità di rivedere la propria posizione, dal Dialogo Nazionale e dalla strada indicata dall’UNSMIL di Bernardino Leon – ma desidererebbe che questo governo fosse sostanzialmente una sua continuazione, fosse sottoposto alla sua approvazione.
Rispetto a Tobruk, Tripoli ha invece lo svantaggio di non avere alcun riconoscimento internazionale che non sia quello accordato di fatto – e, si ricorderà, non senza problemi – di parte cobelligerante e quindi di legittimo partecipante ai colloqui del Dialogo. Dalla sua può vantare il verdetto della Corte Suprema del 6 novembre 2014, negato da Tobruk e sostanzialmente tollerato dalla comunità internazionale che non si è di fatto espressa in merito.
Ovviamente Tripoli non ha alcun interesse a favorire un intervento internazionale sapendo di non poter essere, nel caso, l’interlocutrice prescelta dalle stesse potenze e sapendo che la posizione più interventista è proprio quella egiziana, cioè dello Stato più accesamente antiislamista dell’area e più vicino alle posizioni della nemica Tobruk: in questo senso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 18 febbraio ha costituito un punto a favore di Tripoli, la cui partecipazione al Dialogo infatti non è più stata messa in dubbio.
L’intervento egiziano del 16 febbraio ha reso esplicita una collaborazione da tempo intuita tra Tobruk e Il Cairo. Questo può aver forse dato a Tobruk l’idea che fosse possibile smarcarsi con più decisione dal resto della comunità internazionale, o quanto meno puntare di più sulla propria e totale legittimazione come interlocutore locale di una eventuale coalizione.
In questo senso il vertice del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 18 febbraio potrebbe essere stata una mezza sconfitta per Tobruk, dal momento che al di là dell’Egitto le altre potenze regionali intervenute si sono tutte schierate a favore di una soluzione politica del conflitto e di un governo di unità nazionale.
Eppure il progressivo consolidamento tra l’operazione militare Dignity del genrale Khalifa Hafter e il parlamento orientale – prima con la nomina di Jeroushi a capo dell’aviazione e poi con l’annunciata nomina dello stesso Hafter a capo delle forze armate – è un equivocabile segno di distanza da Tripoli, che in Hafter incarna il proprio nemico principale e in Hafter vede niente più né meno che un criminale di guerra. Nel momento in cui si dovesse arrivare alla nomina di un governo di unità nazionale, non si potrà non discutere del ruolo di Hafter nel nuovo esecutivo: sacrificato da Tobruk in nome dell’unità con Tripoli o tollerato da Tripoli nel nome dell’unità con Tobruk?
Alcune ultime dichiarazioni provenienti dall’Italia sembrano alludere a una certa vicinanza con Tobruk: il 26 febbraio il Primo Ministro Matteo Renzi dichiarava che si doveva «partire dall’esperienza del governo di Tobruk» e che bisognava raggiungere la pace «partendo da un governo eletto democraticamente». Dichiarazioni che in verità appaiono ambigue. Rimane poco chiaro se l’accento, per esempio, vada posto sull’esperienza democratica o piuttosto sul nome di Tobruk, il cui parlamento fu eletto nel giugno 2014; un eventuale governo di unità nazionale, infatti, non sarebbe eletto democraticamente. Forse il Primo Ministro intendeva riferirsi con la seconda dichiarazione a una realtà ormai pacificata e successiva al governo unitario? Non risultano chiarimenti in merito.
Sempre il 26 febbraio il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg, in conferenza stampa congiunta proprio col Primo Ministro Renzi, ha dichiarato che la NATO «è pronta a supportare la Libia con avvertimenti sulla difesa e la costruzione di istituzioni di sicurezza». Espressione da un lato altrettanto ambigua di quella di Renzi, visto che al momento il termine «Libia» indica un’entità politica del tutto vaga, dall’altra forse illuminante: gli «avvertimenti sulla difesa e la costruzione di istituzioni di sicurezza» non sembrano essere l’equivalente di un’incursione bellica. Se quindi di intervento bellico dovesse trattarsi, questo potrebbe non avvenire sotto l’egida della NATO.
La questione dell’intervento esterno
In realtà anche sull’intervento si necessiterebbe di un po’ di chiarezza: ci sono esternazioni che sembrano infatti rendere tutto molto ambiguo, molto meno chiaro di quanto l’intervista del Messaggero possa far sembrare. Innanzi tutto conviene chiarire di cosa si parla quando si parla molto genericamente di «intervento». L’ha ribadito più volte l’analista dell’European Council on Foreign Relations (Consiglio Europeo sulle Relazioni Estere, ECFR) Mattia Toaldo che, intervistato per esempio da Leonardo Bianchi di Vice, sottolinea:
«Dobbiamo comunque capirci su chi sono i terroristi in Libia: ce ne sono tanti, ma non tutti quelli che combattono contro il governo di Tobruk sono terroristi; e non tutti quelli che portano delle armi in Libia sono dei terroristi. Con alcuni si può stringere un accordo politico, con altri come l’ISIS è impossibile oltre che moralmente inaccettabile. Questo è il motivo per cui bisogna stare molto attenti nel parlare di intervento, perché ci sono due tipi. Uno sarebbe quello di stare al fianco dell’Egitto, sostanzialmente schierandosi dalla parte del governo di Tobruk. L’altro, nel caso in cui venga raggiunto un accordo di unità nazionale, fornire delle truppe di peacekeeping per controllare alcune istituzioni chiave»
Forse il pezzo più articolato e chiarificatore a firma dello stesso Toaldo è quello scritto per L’Espresso, dove l’analista immagina appunto le due alternative e ammonisce del rischio che l’Italia autonominatasi a guida di un’eventuale coalizione potrebbe correre a intervenire in Libia prima del tempo:
«Il problema è che, se si scegliesse la seconda opzione [schierarsi a favore di Tobruk], la guerra di Libia del 2015 assomiglierebbe sì al Libano, ma a quello del 1982 quando gli italiani per la prima volta dopo gli anni Sessanta mandarono i loro soldati in una missione di peacekeeping per trovarsi poi intrappolati in una guerra civile senza esito certo, costretti a proteggere se stessi piuttosto che a portare la pace».
L’opzione del governo unitario e quindi dell’interlocutore unico e nazionale sarebbe dunque per l’analista l’ipotesi preferibile, quella che permetterebbe di concentrare le proprie forze nella guerra contro le formazioni dello Stato Islamico e le altre formazioni terroriste presenti nel territorio libico.
Sempre a Vice Toaldo rivela quella che secondo lui potrebbe essere la portata di una sconfitta italiana in Libia dopo un eventuale intervento:
«Se l’Italia veramente partecipasse a un intervento internazionale, penso che potrebbe rivelarsi la peggiore catastrofe politico-militare per il paese dalla Seconda Guerra Mondiale. Nel senso che interverremmo senza avere un obiettivo chiaro dal punto di vista militare—non si capisce cosa vuol dire “combattere l’Isis.” In più, andremmo in un paese dove susciteremmo parecchia ostilità: c’è un passato coloniale e di sostegno al regime di Gheddafi, e un sentimento diffuso di ostilità nei libici di fronte a qualsiasi intervento straniero»
Al di là della forma di intervento che poi si sceglierà, esistono spie che parrebbero indicare, tra i vertici della politica internazionale, una buona dose di incertezza a riguardo, quantomeno la mancanza di un piano comune ai diversi attori: il 24 febbraio la Reuters citava ancora il Primo Ministro Matteo Renzi che sosteneva come al momento non esistessero piani per una missione di peacekeeping, mentre il 18 febbraio la giornalista della BBC Rana Jawad sottolineava come alcune fonti diplomatiche di base a Tunisi le avessero confermato la totale inesistenza di piani per un intervento militare in Libia.
A number of western diplomats to libya based in tunis have effectively told me there r zero plans for Millitary intervention in #libya — Rana Jawad (@Rana_J01) 18 Febbraio 2015
Questo non autorizza a pensare che dal 18 e dal 24 febbraio fino al momento esatto della pubblicazione di questo pezzo la situazione sia rimasta inalterata, ma se si pensa a quanto detto dalla Ministra della Difesa Pinotti già il 15 del mese – «l’Italia è pronta a guidare in Libia una coalizione di paesi dell’area, europei e dell’Africa del Nord […] Ne discutiamo da mesi, ma ora l’intervento è diventato urgente» – non si può non rilevare la mancanza di una linea pubblica condivisa tra tutte le realtà politiche dell’area mediterranea.
Dall’altro versante, almeno tra quella parte di opinione pubblica libica raggiungibile col social network Twitter, c’é anche chi nutre una sincera sfiducia verso una soluzione diplomatica, che non agli occhi di tutti appare in grado di fermare una situazione già molto precaria soprattutto in termini di sicurezza: l’associazione Libyan Youth Movement, per esempio, associazione di giovani libici nata sulla scia delle proteste del 2011 e che conta solo su Twitter poco meno di 170.000 followers, ha espresso questa sfiducia in un recente tweet:
We have assassinations on the rise & world asking for ‘political solutions’. This rhetoric, unacceptable anywhere, is pushed on #Libya
— Libyan Youth Movmnt (@ShababLibya) 24 Febbraio 2015
Le parole dell’analista Mohamed Eljarh sembrano esemplari di questa sfiducia: non la questione politica e diplomatica di un governo di unità nazionale sarebbe essenziale, ma – che il governo unitario vi sia o no – un’efficace risposta militare alle minacce terroristiche.
Scrive in un articolo datato 25 febbraio:
«La comunità internazionale vede un governo unitario mediato dalle Nazioni Unite come la via d’uscita politica preferita dall’attuale crisi in cui versa la Libia. Ma il tempo sta scadendo parallelamente all’aumento della minaccia dello Stato Islamico nel paese. In ogni caso i colloqui delle Nazioni Unite non risolveranno ogni cosa: attori internazionali e regionali devono affrontare la realtà per cui i libici, con o senza un governo di unità nazionale, non possono fronteggiare il terrorismo e la militanza da soli, né la guerra per procura regionale a bassa intensità attualmente in corso risolverà le questioni.
Invece la Libia ha bisogno di una strategia comprensiva per sconfiggere lo Stato Islamico. Il che significa mettere in sicurezza i propri confini e impedire il flusso di armi e jihadisti per e dalla Libia. Più importante, qualsiasi futuro governo unitario in Libia deve assicurare che la sua massima priorità sia ripristinare la sicurezza rinforzando e supportando un esercito unito e professionale al fine di soggiogare lo Stato Islamico e disarmare le milizie. Naturalmente la sfida esiste da quando la comunità internazionale ha aiutato a spodestare Gheddafi quattro anni fa – e da allora se n’è andata via»
Conclusioni. Unità nazionale, libera scelta in una strada obbligata
La presenza dello Stato Islamico in un’altra città libica oltre Derna – Sirte, con la presenza non secondaria delle strutture petrolifere dell’area – ha avuto l’effetto di riportare la crisi libica al centro della politica estera dei paesi del Mediterraneo; ma soprattutto ha avuto l’effetto di imporre un’accelerata ai colloqui del Dialogo Nazionale, che ora ci si aspetta concluda un governo di unità almeno entro la data di scadenza del mandato della stessa UNSMIL: il 13 marzo 2015.
Dopo i primi giorni in cui le parole della Ministra della Difesa italiana Roberta Pinotti avevano dato l’impressione che un intervento armato potesse essere questione di brevissimo tempo, la situazione si è stabilizzata in una formula, per così dire di compromesso: intanto la diplomazia per formare il governo di unità nazionale come referente unico e poi si vedrà in che forma intervenire. Una formula forse molto cara all’Italia, divisa tra una dipendenza dal petrolio libico che diventa importante soprattutto in virtù della crisi ucraina a Est e il timore di imbarcarsi in qualcosa di più grande di lei poco oltre il proprio confine meridionale. Italiano o no che sia il compromesso, questo ha lasciato perfetta traccia in una dichiarazione congiunta firmata dai governi di Francia, Italia, Germania, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti il 17 febbraio, quarto anniversario della rivolta del 2011; dove si legge, sibillina verso la fine, questa dichiarazione: «l’incombere della minaccia terroristica richiede rapidi progressi nel processo politico, sulla base di una sequenza temporale precisa». Insomma, non c’è tempo da perdere e bisogna sbrigarsi procedendo a tappe forzate.
Eccetto quei gruppi come Ansar al Sharia o lo Stato Islamico che non hanno mai pensato a scendere a patti con gli avversari, non esiste in Libia un gruppo che neghi già di principio la possibilità di una riconciliazione: sia Tripoli che Tobruk si sentono i legittimi eredi di uno stesso fatto storico – la rivoluzione del 17 febbraio – e non sono quindi nemici assoluti e inconciliabili come potevano esserlo nella prima guerra i ribelli e i lealisti. Ma nessuno dei due governi appare disponibile a retrocedere troppo dalle proprie posizioni.
In particolare l’intervento egiziano ha dato il via, ufficializzandola dopo un certo periodo di ufficiosità, alla soluzione militare a fianco di Tobruk e da lì i malumori del governo orientale verso una comunità internazionale ritenuta lontana da queste posizioni si sono concretizzati in una sempre maggiore insofferenza verso la diplomazia delle Nazioni Unite, che a parole per altro tutti accettano: non è un caso che in alcune manifestazioni popolari seguite agli attentati di al Qubbah del 20 febbraio si siano bruciate bandiere qataresi e statunitensi a segno di una distanza che ormai alcuni potrebbero percepire come irrimediabile. Tutto bene per Tripoli, che può percepire come vicine le cosiddette potenze occidentali, ma alla quale manca – ed è un punto fondamentale, decisivo – il riconoscimento internazionale.
Insomma, ad un passo da un marzo che sembra tanto un mese decisivo per la Libia, la comunità internazionale occidentale non riesce a risolvere la contraddizione della presenza di un governo riconosciuto e distante e di un governo non riconosciuto ma di fatto vicino, o che potrebbe sentirsi tale.
In tutto questo c’è da chiedersi come si potrebbe formare e poi comportare un governo di unità nazionale che è ritenuto utile innanzi tutto all’estero, mentre è accolto con perplessità da una parte degli attori interni: sarà appunto questa la vera sfida.
Chi scrive non crede ci siano nella pratica reali dubbi su di un’effettiva formazione del governo unitario, ma non riesce a non rilevare una contraddizione. Rispondendo ad una domanda, Bernardino Leon diceva in conferenza stampa il 28 ottobre 2014: «Prima di tutto, linea cronologica; io non penso che la comunità internazionale debba fissare una linea cronologica. Sono i libici a dover decidere quale sarà questa linea». Erano altri tempi, appunto prima dell’accelerazione imposta dagli avvenimenti di oggi, ma è evidente che ora i rappresentanti dei libici – la retorica del popolo che decide lascia sempre il tempo che trova – dovranno risolversi verosimilmente entro il 13 marzo e sono anche a rischio di sanzioni, perché chi ostacola il Dialogo è sanzionabile. La comunità internazionale non sembra dunque intendere che i rappresentanti dei libici possano al limite decidere di non formare un governo di unità nazionale.
Sarà marzo, allora, a dire in modo cruciale cosa succederà a questa Libia e come proseguirà il suo 2015.
Profilo dell'autore
- Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.
Il mio pessimismo in questa faccenda mi spinge a dichiarare che non vedo soluzioni diplomatiche in Libia. La spaccatura , sempre esistita, anche durante la dittatura di Gheddafi, tra Tobruk e Tripoli, a mio avviso, non si potrà mai rimarginare. Credo che il governo di Tobruk , ben consapevole della resistenza di Tripoli e della propria inadeguatezza militare per contrastare i miliziani tripolini, sia proprio l’artefice occulto dell’attacco all’hotel Corinthia e anche responsabile della decapitazione dei 21 egiziani copti. Solo così , Tobruk ha potuto ottenere , da un lato l’inevitabile appoggio militare egiziano e dall’altro , addossando la colpa all’ISIS, l’attenzione dei paesi confinanti , Italia compresa.
In Egitto, come in Libia la diplomazia è qualcosa che non esiste. Basti analizzare la messa fuori legge in Egitto della Fratellanza Musulmana e la feroce pulizia che il generale Al Sissi sta facendo nella penisola del Sinai, dove ogni giorno l’esercito uccide dai 30 a 40 appartenenti al partito dei Fratelli Musulmani. Questi, da parte loro, dopo essere stati destituiti , non vogliono discutere con il generale al Sissi e sono pronti a morire.
In Libia sta succedendo la stessa cosa. Non riesco a pensare che Tripoli accetterà mai l’egemonia del governo di Tobruk e , purtroppo, il bagno di sangue sarà inevitabile.
La presenza dell’ISIS in Libia è solo marginale , usata ad hoc dal governo di Tobruk per far intervenire, con lo spauracchio delle bandiere nere, le potenze straniere al fine di rendere Tripoli inerme e pronta per essere annessa al governo orientale.
Il mio pessimismo in questa faccenda mi spinge a dichiarare che non vedo soluzioni diplomatiche in Libia. La spaccatura , sempre esistita, anche durante la dittatura di Gheddafi, tra Tobruk e Tripoli, a mio avviso, non si potrà mai rimarginare. Credo che il governo di Tobruk , ben consapevole della resistenza di Tripoli e della propria inadeguatezza militare per contrastare i miliziani tripolini, sia proprio l’artefice occulto dell’attacco all’hotel Corinthia e anche responsabile della decapitazione dei 21 egiziani copti. Solo così , Tobruk ha potuto ottenere , da un lato l’inevitabile appoggio militare egiziano e dall’altro , addossando la colpa all’ISIS, l’attenzione dei paesi confinanti , Italia compresa.
In Egitto, come in Libia la diplomazia è qualcosa che non esiste. Basti analizzare la messa fuori legge in Egitto della Fratellanza Musulmana e la feroce pulizia che il generale Al Sissi sta facendo nella penisola del Sinai, dove ogni giorno l’esercito uccide dai 30 a 40 appartenenti al partito dei Fratelli Musulmani. Questi, da parte loro, dopo essere stati destituiti , non vogliono discutere con il generale al Sissi e sono pronti a morire.
In Libia sta succedendo la stessa cosa. Non riesco a pensare che Tripoli accetterà mai l’egemonia del governo di Tobruk e , purtroppo, il bagno di sangue sarà inevitabile.
La presenza dell’ISIS in Libia è solo marginale , usata ad hoc dal governo di Tobruk per far intervenire, con lo spauracchio delle bandiere nere, le potenze straniere al fine di rendere Tripoli inerme e pronta per essere annessa al governo orientale.