Osservo intensamente la forza dell’oceano, i granelli di sabbia trasportati dal vento, i rifiuti oscillare nell’aria. Perdo parole, discorsi, chiudo gli occhi e guardo il cielo. Il suono delle onde sovrasta il tutto. Un microcosmo fatto di salsedine e lentezza. Riprendiamo il cammino verso il porto, lasciandoci alle spalle le imponenti scogliere. Qualche peschereccio solitario tenta invano di prendere il largo mentre Rachid continua a sfidare le onde, aspettando sulla riva umida la loro avanzata per poi correre via, allontanandosi di pochi metri. Al di là della sponda in cemento, dalle viscere della Medina, si innalza profonda la chiamata alla preghiera. La voce del muezzin si espande nell’atmosfera, trascinandoti in un modo arcaico, privo di barriere. È ormai sera.
Io e Sebastian improvvisiamo innumerevoli partite a dama accompagnate da fiumi di tisana bollente. Musica egiziana in sottofondo. Veniamo interrotti con piacere da Rachid, il quale, estraendo un libricino dalla miriade di volumi esposti nella scaffalatura esclama: “Dovreste leggere qualche scritto di Maram Al-Masri, poetessa ed esule siriana. Dice che la poesia è ormai un lusso per poche persone. La gente comune, il popolo, non ha tempo per sognare. Deve badare ai figli, lavorare, sopravvivere”. Quante cose da assimilare! Il sistema, l’abitudine ad esso. Fuori imperversa un temporale e le persiane sbattono violentemente. Le strade sono vuote.
Zohra si muove cautamente, oscillando a destra e sinistra. Indossa un velo azzurro e gli occhi semichiusi sembra nascondano una celata dolcezza. Le sue mani si muovono rapide e veloci quando taglia zucchine, patate e carote per il cous-cous del pranzo collettivo. Sembra che non pensi a nulla. Semplicemente c’è. Khayat invece ha lo sguardo apparentemente severo. Nonostante la sua età si muove con dinamismo e caparbietà. Indossa sempre un cappellino di lana nero e versa il the in modo preciso, riempiendo per tre quarti i bicchierini in vetro. Quando mangiamo tutti insieme è bello. Il più delle volte non utilizziamo le posate, così le nostre mani si sfiorano, si intrecciano, si amalgamano sporcandosi con spezie e sapori.
L’architettura delle case, cosi come quella dei palazzi, è più spaziosa, slanciata, alta. Gli spazi sono maggiormente aperti e ventilati rispetto al canone europeo. In un certo senso si respira meglio! Almeno una volta al giorno ci rechiamo in un bar o bottega, a sorseggiare con calma un the, tra il vapore e la puzza dell’hashish fumata da vecchi contadini o mercanti locali. La calma. Qui è cosi. Non si avverte la fretta dell’Europa, la continua corsa agli impegni che caratterizza casa. Tutto è più lento. Il tempo si dilata e tutti hanno più attimi o circostanze per camminare, leggere, dialogare con amici o conoscenti. Pensare! La nostra vita è fatta spesso di continue distrazioni, a tal punto che anche le nostre riflessioni si accorciano, privandoci di raggiungere eventuali utili conclusioni esistenziali.
Fino a tarda sera le porticine delle case rimangono aperte, per simboleggiare la perenne ospitalità degli abitanti, ma anche per avvisare eventuali viandanti o turisti che, in caso serva, camere libere per dormire si trovano sempre. Mulay Yakoub si arrampica sul versante di un altopiano ed è ben accessibile dalle città vicine. Per compiere un tour della cittadina occorre salire e scendere, su e giù per scale e gradoni, seguendo il vociferare delle donne e le urla gioiose dei bambini. Un labirinto! Sulla sommità della montagna adiacente a noi è sepolta una santa. Dopo pranzo frotte di famiglie in vacanza o pastori locali si inerpicano su per i ripidi versanti, fino a raggiungere la vetta. La fatica è compensata dalla vista panoramica che ti si staglia davanti. Sembra di toccare il cielo, un luogo eterno fatto semplicemente di campi coltivati, colline, cactus, vento, sole e l’immancabile silenzio di certe ubicazioni.
Montagne a perdita d’occhio!Un giovane pastore col cappello di paglia ed una moderna radio appesa a tracolla, scruta il suo gregge, urlando “yalla!” ogni volta che una pecora tenta disperatamente la fuga. I suoni della cittadina vengono trasportati dalle folate di vento fin quassù, facendoti cogliere per brevi attimi le esclamazioni di ristoratori o artigiani rimasti giù, ai piedi della montagna sacra. Da questo punto di vista le case sottostanti sembrano un alveare colorato. Azzurro, rosso, giallo, bianco. Una gamma allegra di colori.
Guadiamo un fiume, poi attraversiamo una collina ricoperta da legna marcia, spazzatura ed escrementi di pecora e arriviamo. In realtà ci manca un km di scalinata ripida, ma siamo comunque alle porte della città. Su entrambi i lati spiccano meccanici, panettieri, saldatori e bambini intenti a giocare a calcio tra le carcasse di autovetture abbandonate e i calcinacci delle case. Più sali e più è difficile descrivere tutto ciò che ti si para davanti. Colonne e arcate millenarie, casette umili ma ricoperte di mosaici antichi. Pozzi d’epoca e portoni intarsiati con scritte e simboli della cultura berbera.
Appena sbarcato in Marocco ho afferrato l’idea che non mi sarei potuto permettere di fotografare tutto ciò. Semplicemente sarei andato contro me stesso cercando di bloccare attimi di un mondo irrefrenabile. Troppi spunti, troppe cose da annotare. La macchina fotografica penso che arriva fino ad un certo punto, dopodiché subentri tu … e la soglia tra imprimere su scheda o pellicola e vivere il mondo è molto sottile. Spesso, per quanto mi riguarda, preferisco respirare forte e chiudere gli occhi. Per cena gustiamo della zuppa di fave, tipica ricetta montanara utile per riscaldarsi dal vento freddo degli altopiani. Nell’area circostante ci sono tanti senzatetto, alcuni di loro sono poco più che adolescenti. Bighellonano traballando a destra e sinistra, sniffando colla da un sacchetto di plastica nero. Mi ricorda Bucarest. In mezzo alla piazza c’è un gruppo musicale. La folla si fa intorno. Suonano vecchie canzoni berbere, pestando su tamburi e strimpellando con forza le corde di un banjo. È tempo di andare. Abbracci e mano sul cuore. Ci rivedremo presto Rachid. Inch’allah.
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