Storie di confine: tra Messico e Guatemala, in viaggio con i migranti

di Francesca di Saint Pierre

Nel silenzio ovattato dei campi che circondano la città si sente lo stridere sferragliante della Bestia, il treno merci su cui viaggiano migliaia di migranti diretti al Nord del paese, aggrappati ai vagoni di ferro, per giorni e notti, attraversando selve e deserti.

Conosco Luis a La 72, una casa-rifugio dove i migranti in transito possono fermarsi durante il loro viaggio verso il Nord. E’ salvadoregno ed è la seconda volta che batte queste strade: la prima volta è riuscito ad arrivare fino ad Austin, negli Stati Uniti, dove ha vissuto e lavorato per cinque anni, poi venire espulso dal paese in quanto “illegale”. Conosce il lungo viaggio che lo separa dal suo sogno americano. Gli chiedo della Bestia.

Io sono cresciuto in mezzo alla violenza. Nel mio paese vedevo omicidi ogni giorno, risse, sparatorie,  aggressioni di ogni tipo. Ma non ero pronto alla violenza del treno. Durante il mio primo viaggio ne ho visti morire sette. Il compagno con cui viaggiavo era molto spaventato. Abbiamo preso la rincorsa per saltare sul treno, però lui non si è aggrappato bene, è caduto, e il treno l’ha risucchiato. Gli ha mozzato le gambe all’altezza della ginocchia. Ne ho visti altri morire in cima a quel treno, se ti distrai un attimo è finita.

Il confine tra Messico e Guatemala è oggi uno dei più attraversati al mondo, con tutte le conseguenze nefaste che questo comporta. E’ stato stimato che dal 2000 il flusso di persone in transito in questa zona ammonta a varie centinaia di migliaia di persone all’anno, con picchi di 400.000 transiti nel 2005 e nella prima metà del 2014. La maggior parte di loro fugge da contesti di povertà estrema o è in pericolo di la vita nel paese di origine, minacciati da violenza diffusa e crimine organizzato. Provengono da Honduras, El Salvador e Guatemala, i tre paesi centroamericani più violenti della regione: l’Honduras è stato considerato il paese più pericoloso al mondo, con 90,2 omicidi per ogni centomila abitanti, secondo il rapporto globale delle Nazioni Unite sugli omicidi. El Salvador e il Guatemala figurano rispettivamente al quarto e quinto posto.

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Josué, trentenne dell’Honduras, incarna queste tristi statistiche, come mi racconta sgomento al suo arrivo a Tenosique, dopo due giorni di cammino:

Mi hanno messo in mezzo ad una guerra tra pandillas, tre giorni fa sono venuti alla porta di casa mia e mi hanno minacciato: ‘se non te ne vai domani mattina ammazziamo te e la tua famiglia’. Sono partito immediatamente, non potevo mettere in pericolo il mio bambino, ha solo un anno. Non avevo altra scelta. Adesso non so cosa fare, si sentono delle storie spaventose sul viaggio verso gli Stati Uniti, ho paura. Non posso tornare nel mio paese, se no sono un uomo morto. Ma non voglio nemmeno morire sul treno.. Sono in trappola.

Dinanzi alle vari migliaia di persone in viaggio in cerca di protezione, il governo messicano ha messo in atto politiche migratorie sempre più restrittive, in gran parte frutto di accordi commerciali con gli Stati Uniti. A giugno dello scorso anno è stato implementato il Plan Frontera Sur, un programma di controllo e militarizzazione della frontiera Sud voluto e direttamente finanziato dagli Stati Uniti, al fine di detenere il flusso migratorio dal Centro America al Nord del continente. Presentato dal governo come un programma di protezione della popolazione migrante, che garantisca la loro sicurezza e aiuti a combattere il crimine organizzato che specula sulle persone in transito, il Plan altro non è che l’ennesima strategia di criminalizzazione delle persone migranti, che facendo un uso massivo di mezzi militari e repressivi, ha dato vita a una vera e propria caccia all’uomo in tutto il Sud del paese. Il programma figura come solo l’ultimo di molteplici sforzi di arrestare il movimento di persone dal Centro al Nord America, e ha dato vita a una vera e propria crisi umanitaria, convertendo i migranti in vittime di violenze terribili.

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Il viaggio che affrontano ogni mese migliaia di migranti in questo tratto di confine è costellato di aggressioni, sequestri, estorsioni, stupri, assalti, tanto per mano del crimine organizzato e dei polleros (come chiamano in questa zona i trafficanti di uomini), quanto ad opera delle autorità messicane, dalla polizia all’esercito alla polizia migratoria. Tomas Gonzales Castillo, direttore de La 72, parla di uno “stato di emergenza” nel quale l’unica cosa ad essere garantita sono gli interessi delle bande criminali, che in combutta con le autorità corrotte hanno stabilito un vero business sulla pelle dei migranti.

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Il Tabasco non è diverso dalle tante terre di confine dove ogni giorno, sistematicamente, vengono messi in atto meccanismi repressivi e sanguinari di militarizzazione della frontiera e di criminalizzazione delle persone migranti. Tali meccanismi, figli del sistema neoliberale, sono strumenti di salvaguardia di interessi politici e commerciali che continuano a mettere in luce le contraddizioni di questa “economia di morte”, come la definiscono i volontari de La 72.

Il Tabasco, come tante altre terre di confine, è anche una terra di resistenza, dove centinaia di persone ogni giorno si inseriscono nelle fratture di questo sistema malato, e lottano affinché venga lora garantita una vita degna.

“I confini fanno paura, tutto il viaggio è un pericolo costante, e la morte non è il peggio che ti può accadere. Ma non ci arrendiamo perché abbiamo il diritto di cercare una vita migliore per noi e i nostri figli” , mi dice Bayron, 24 anni, fuggito dalla’Honduras mesi fa poiché perseguitato dalle violenze nei confronti della sua famiglia. Sta vivendo a La 72 nella speranza di ricevere lo status di rifugiato, e ogni mese vede passare da questo piccolo centro circa un migliaio di persone in viaggio verso il Nord. “Ci vogliono invisibili, ci vogliono servi, ci vogliono silenti. Ma noi saremo qui, sempre in cammino, a ricordargli che la nostra vita vale quanto la loro”.


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