Maggio 2014: dall’inizio della Rivoluzione Siriana i ribelli di Aleppo liberata, continuano instancabili il loro lavoro di reporter nel network televisivo HalabNews.com. Enea Discepoli, fotografo, decide di organizzare una mostra nel centro storico di Aleppo, con i media-attivisti di Halab News ma, arrivato in Siria, scopre a malincuore che la sua idea è impraticabile.
Inizia così Young Syrian Lenses – Media Attivisti ad Aleppo, il racconto filmato dal regista Ruben Lagattolla che attraverso l’obiettivo della telecamera vive e racconta quello che sta accadendo in Siria in un costante stato di lucida paura. Non sono immagini celebrative ma uno sguardo che fa riflessioni e confronti tra la nostra società apparentemente sicura e quella siriana infangata in uno stato di violenta anarchia. Uno sguardo sulla condizione umana della popolazione civile reso possibile anche grazie la co-regia di Filippo Biagianti.
Come è iniziato questo progetto?
Il desiderio di andare in Siria ce l’avevo dal marzo 2011 quando lavoravo per un’altra produzione e stavo viaggiando tra Libano, Giordania e Israele per altri documentari. Allora non fummo autorizzati ad entrare, perché c’erano già state le prime stragi a Dara’a. Nel 2013 ho iniziato a lavorare come cameraman per l’agenzia EPOS, sotto la regia della prof. Emanuela C. Del Re, all’interno di un progetto di formazione su diritti umani, società civile e molto altro, nei campi di rifugiati siriani nel Kurdistan Iracheno.
In quel contesto, più volte mi sono ritrovato a camminare tra le tende e ad intervistare i rifugiati della Rojava. Cercavo di esplorare il momento in cui queste persone lasciavano le loro case per l’ultima volta, chiedevo di descrivermi la situazione, ma non ho mai ricevuto risposte che mi bastassero. I rifugiati si trovano in un grande trauma collettivo, che non permette loro di pensare ad altro che non sia il presente, la realtà per superare la giornata, le condizioni dei campi sono davvero tremende, anche se soccorrono chi scappa dalla guerra. Dopo aver passato un paio di mesi in Iraq tra il 2013 e il 2014, ho conosciuto Enea Discepoli, che stava per partire per il suo terzo viaggio ad Aleppo per compiere un’azione per me incredibile: fare una mostra fotografica ad Aleppo ribelle.
Così ho deciso di seguirlo – e lui ha accettato di portarmi con sé – e pochi giorni dopo, il 28 aprile 2014, siamo partiti dall’Italia con le stampe fotografiche sotto braccio. Una volta entrati ovviamente la situazione si è palesata: il luogo che Enea aveva deciso per la mostra, nel frattempo era stato bombardato, così mi sono dovuto reinventare la storia da raccontare nel documentario…
Una volta tornato ho cercato aiuto per il montaggio, e ho trovato Filippo Biagianti, che è entrato come co-produttore e co-regista, perché grazie a lui abbiamo potuto realizzare il film così com’è.
Io da solo non ce l’avrei fatta, emotivamente e tecnicamente.
A prima vista potrebbe sembrare un documentario sulla guerra in Siria ma tu parli di una realtà ancora più specifica: i “reporter” della rivoluzione.
E’ un documentario su un aspetto della rivoluzione siriana: quello della popolazione civile che subisce la guerra, i civili i bambini e gli uomini pacifisti, raccontata attraverso le storie dei media-attivisti. Non ho cercato immagini di scontri e assalti o del fronte, anche se mi sono state offerte diverse volte. Non era quello che cercavo, anche se sicuramente avrei fatto qualche euro in più al ritorno.
L’idea è di raccontare la guerra da dentro, di portarci lo spettatore, il mio vicino di casa, la persona normale, per provare a far capire la guerra a chi non l’ha vissuta, ma ne sente parlare, assuefatto, ogni giorno. Non sono sicuro di esserci riuscito, l’esperienza per me è stata fortissima, e quello che ho vissuto sulla mia pelle, che mi ha cambiato radicalmente come uomo non sono sicuro che sia percepibile da tutti.
Guardando il tuo film è impossibile non notare la “delicatezza” del tuo filmare…Sembra quasi che tu abbia preferito dare una visione dell’insieme senza scadere nei soliti cliché.
Grazie, lo prendo come un complimento. L’idea di partenza era quella di fare dell’antropologia nella guerra, e non di andare a spettacolarizzarla e a banalizzarla. Perché secondo me ci sono già troppe fonti che ne danno una visione distorta. La mia scelta “tecnica” è stato il mio modo di dire che, a prescindere da buoni e cattivi, estremisti ed eroi del lacismo…, ciò che conta è che si sono quantità oceaniche di persone che muoiono e soffrono questa situazione ogni giorno… Che è poi il motivo che ci ha portati ad essere patrocinati da Amnesty International sezione italiana, a film completato.
Cosa ti porti dentro di questa esperienza?
Di questo viaggio mi porto molti incubi notturni, ma allo stesso tempo un’esperienza umanamente unica. Per chi viaggia forse è una banalità, ma lo spirito sociale, di fratellanza, in cui sono stato accolto lì, non l’avevo mai vissuto prima. Il primo giorno è stato davvero duro, ci siamo trovati dentro una scena apocalittica: c’erano decine di morti lungo la strada, un barile era stato sganciato pochi minuti prima su una pompa di benzina (che consiste in un furgoncino con dei barili di benzina sopra), c’era polvere bollente nell’aria, fuoco che usciva da un palazzo con della gente che, affacciata alla finestra, non urlava, aspettava di morire o di essere salvata, in silenzio. Io non riuscivo a fare altro che filmare, usavo la fotocamera come filtro con la realtà, non riuscivo a guardarli quei morti carbonizzati, gialli, glabri, rigidi come manichini, con le mani davanti alla faccia.
La notte successiva a questa esperienza è stata un incubo: sentivo gli elicotteri volare sopra di noi, e ogni tanto un boato più vicino o più lontano, e non riuscivo a dormire, mi domandavo quando sarebbe arrivato il nostro, e cercavo di immaginare cosa avrei potuto fare se il palazzo fosse crollato e io per qualche motivo fossi sopravvissuto. La mattina dopo, con i nostri amici siamo andati in Moschea alla preghiera del venerdì. Io non sono musulmano, ma entrando in Siria, la mia guida e compagno di viaggio Enea Discepoli, mi ha guidato in questa conversione temporanea all’Islam, che sarà pure stata temporanea, ma ha agito in maniera molto positiva su di me. In Moschea, durante la preghiera (di cui non capivo una parola), ho percepito una forza enorme da parte della folla dentro cui mi trovavo spalla a spalla, mi sembrava di essere in una gigantesca mischia ordinata di rugby, ma silenziosa, dove ognuno cercava di trovare la propria forza, e in quell’atto ognuno la trasmetteva all’altro. Nel momento della prostrazione, quando tutti ci si inginocchia verso La Mecca, ho pensato al gesto di umiltà che si fa in quel modo, e mi ha aiutato molto a ridimensionare l’esperienza, e a pensare che tutto sommato avevo vissuto una vita buona fino a quel momento, e che se doveva arrivare il momento di morire, andava bene, ero sereno.
Da quel giorno la mia vita è cambiata molto, anche una volta tornato a casa.
Hai ancora contatti con gli intervistati? Cosa ti dicono della Siria?
Sono ancora in contatto con i ragazzi, sono tutti vivi, anche se sono stanchi. La Siria continua ad essere il teatro di uno scontro di molti poteri, ma è anche una manifestazione di cinismo ed inerzia combinati da parte dei paesi occidentali.
Young Syrian Lenses parteciperà il 13 e 14 maggio al Rome Indipendent Film Festival, qui tutte le info.
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