di Giovanni Gugg
Da oltre 40 giorni in Burundi, un piccolo Paese nel cuore dell’Africa, sono in corso manifestazioni di protesta per difendere la Costituzione e la democrazia: il presidente uscente, Pierre Nkurunziza, ha annunciato di candidarsi per un terzo mandato. Questa possibilità è esclusa dagli Accordi di Arusha del 2000: da qui, dopo anni di massacri tra hutu e tutsi, sarebbe dovuta partire la pacificazione del Paese. In realtà il processo di pace si concluse formalmente solo nel 2005: sotto la supervisione di Unione Africana, Nazioni Unite e Unione Europea si svolsero elezioni a cui i vecchi partiti politici burundesi parteciparono riorganizzati con “quote etniche” e che si risolsero proprio con la nomina di Nkurunziza.
Sebbene mai agli sconcertanti livelli degli anni Novanta, la violenza e le forzature, tuttavia, sono continuate, specie nei periodi pre-elettorali, come nel 2010 e ora, nel 2015. Intimidazioni, censura, controllo dell’informazione e repressione dei dissidenti sono state pratiche usuali nell’ultimo decennio, ma in occasione dei cambi di potere (anzi, di rinnovo del potere) le pressioni sono cresciute enormemente: nel 2010, ad esempio, Nkurunziza corse da solo, poiché tutti i partiti all’opposizione si ritirarono polemicamente dalla competizione elettorale. Oggi il quadro si è fatto ancora più complesso, in quanto è sopraggiunto un soggetto politico “nuovo”: la popolazione burundese. Detta così sembrerebbe una forzatura e una semplificazione, me ne rendo conto, ma mai prima d’ora in Burundi, da vent’anni, si era assistito ad una serie di manifestazioni di protesta di tale entità: così numerose, così partecipate, così ricorrenti, e tenaci.
Un piccolo salto nel passato: la campagna elettorale del 2005
Faccio un breve passo indietro e torno alla campagna elettorale del 2005. In quell’occasione mi trovavo a Bujumbura, la capitale, per un progetto di cooperazione internazionale volto alla (ri)costruzione della convivenza interetnica ed ebbi la possibilità di partecipare come osservatore elettorale dell’UE. In quei giorni intensi, altamente coinvolgenti per me dal punto di vista umano, imparai molto anche, e forse soprattutto, sul mio mondo di provenienza, l’Europa, l’Italia.
In giro c’era ottimismo, ma inevitabilmente anche tensione in vista del giorno delle votazioni: ad esempio, le sedi delle istituzioni internazionali avevano potenziato le proprie difese con barriere di sacchi di sabbia e filo spinato srotolato tutto intorno, nella capitale la sera vigeva il coprifuoco e solo dalle 6 di mattina si poteva uscire dal centro urbano. Tra gli episodi che ricordo maggiormente ci sono le “lezioni” che alcuni membri dell’ONUB (Opération des Nations Unies au Burundi) tenevano in varie strutture pubbliche per spiegare ai cittadini il senso di quel che si stava organizzando: “cosa sono le elezioni? a che serve votare? cos’è la democrazia? perché il voto è segreto? forse è qualcosa di sbagliato, se è segreto?” E così via. Non so dire quanto fossero opportuni tali incontri organizzati pochi giorni prima di un appuntamento tanto atteso, tuttavia in uno di essi, presso un centro giovanile di Kamenge, un quartiere della periferia nord di Bujumbura, fui io ad imparare molto. Mi accorsi di qualcosa di cui disponevo da sempre e che era per me talmente usuale da non esserne più consapevole: l’idea, cioè, che la democrazia non è un dato acquisito, ma una costruzione senza sosta. Sulla mia agenda appuntai alcuni dei principi che, con il linguaggio del posto, vennero declamati allora e che, al di là della quota di retorica che inevitabilmente includevano, mi sembravano piuttosto efficaci:
- «Il voto è personale ed è il modo in cui ogni cittadino può contribuire a costruire un Paese migliore, un Paese nuovo… è come se si costruisse una casa ed ogni membro della famiglia portasse un mattone»;
- «Per sapere chi votare, cioè chi eleggere come proprio rappresentante per i successivi 5 anni, è necessario conoscere, informarsi, sapere chi sono i candidati, qual è la loro storia, le loro idee…»;
- «Una buona democrazia è quella libera e informata»;
- «Stiamo costruendo una democrazia, ci vuole tempo e lavoro. Non dobbiamo fare come quando andiamo al mercato a comprare un mango, dimenticandoci che quel mango ha avuto bisogno di tempo e lavoro per maturare».
Le proteste del 2015: riepilogando
Sono trascorsi dieci anni da allora, dieci anni in cui la stessa persona ha ricoperto legittimamente i due mandati presidenziali che si sono avvicendati, sebbene con piglio da “uomo forte”; ora, appellandosi ad un cavillo procedurale, quell’uomo vorrebbe ricandidarsi per un terzo mandato. Stavolta, però, la reazione popolare è stata ampiamente diversa dal solito, nonché piuttosto inattesa. Il 25 aprile scorso, in occasione del congresso del suo partito, il CNDD-FDD, Nkurunziza ha annunciato ufficialmente la sua candidatura [1] e immediatamente in alcuni quartieri di Bujumbura la gente si è riversata in strada a protestare [2]. Da allora, tutti i giorni, migliaia di persone occupano le strade: sventolano rami d’albero (segno di protesta pacifica), cantano l’inno nazionale, urlano lo slogan che sin dall’inizio si è imposto come motto dell’opposizione (e anche come hashtag sui socialmedia): «Sindumuja», ovvero «Non saremo più schiavi», in kirundi. La repressione, soprattutto da parte della polizia, è stata spesso molto violenta (al momento si contano almeno 50 morti, decine di feriti e centinaia di arrestati), ma il gruppo più inquietante è quello degli Imbonerakure, i giovani militanti del partito di governo che da tempo vengono armati [3].
In circa un mese e mezzo, le proteste si sono estese a tutto il Paese: si sono succeduti in questo periodo un tentativo di golpe da parte di alcuni alti esponenti dell’esercito (che analisti internazionali hanno giudicato come un atto, per quanto estremo, di difesa della Costituzione), l’omicidio politico di un oppositore (Zedi Feruzi, leader del piccolo partito di opposizione UPD, Union pour la Paix et la Démocratie) e alcuni attentati (al mercato centrale di Bujumbura e alla sede della Banca del Kenya). Intanto, le pressioni internazionali si fanno giorno dopo giorno più insistenti: gli USA dichiarano apertamente la loro avversione al terzo mandato di Nkurunziza, così come l’ex-segretario dell’Onu Kofi Annan; allo stesso tempo le Nazioni Unite, l’Unione Africana e l’Unione Europea invitano a riprendere il dialogo mentre altre nazioni annunciano boicottaggi, come il Belgio, principale partner economico del Burundi. In ogni caso, sebbene l’incubo aleggi in maniera ricorrente, il discorso non si è mai etnicizzato; ci ha provato solo il presidente in una nota piuttosto inquietante del 20 maggio, in cui intimava i mass-media nazionali e stranieri di non diffondere informazioni che incitassero all’odio e alle divisioni interne: «Nessun burundese vorrebbe rivivere le tensioni e le divisioni etniche o d’altra natura. Il sangue che è stato versato nel passato ci è servito da lezione».
Come ha spiegato Valeria Alfieri su “Frontiere News”, «le manifestazioni sono politiche, ed i partiti d’opposizione sono etnicamente misti. Inoltre, molti membri del Fnl, che sono in maggioranza hutu e che vivono in quartieri più periferici, come Bujumbura rurale, scendono ogni giorno in città per rinforzare le manifestazioni dei quartieri urbani. Ciò spiega perché le manifestazioni nel quartiere Musaga, il bastione della protesta, siano socialmente ed etnicamente miste. Stesso ragionamento può essere fatto per quanto riguarda i golpisti».
Perché il Burundi: superare il concetto di “esteri”
Da settimane, seguendo le vicende burundesi, mi domando perché investo così tanto tempo ed energie per una vicenda lontana e tutto sommato “limitata” (almeno relativamente alle crisi che tuttora inquietano altre zone del mondo). Mi sono accorto che oltre a ragioni personali ed etiche, ce ne sono alcune più immediate e generali: prestare attenzione all’altro, infatti, è come guardarsi allo specchio, dove sia le somiglianze che le differenze possono parlare di noi.
È principio intorno a questo principio che alcune testate giornalistiche stanno tentando di riorganizzare la sezione degli “esteri”, che nell’informazione occidentale sta subendo una sensibile flessione. L’opinione che va facendosi strada è che gli “esteri” siano ormai una categoria obsoleta, che va riorganizzata partendo dal campo di interessi, non dal luogo geografico di cui si parla: come osserva Anna Momigliano, «una notizia sulla violenza contro le donne in India, per dire, è un articolo sulla violenza contro le donne, che incidentalmente riprende dei fatti indiani». Così, quando leggo e scrivo di Burundi, in realtà ritengo di occuparmi innanzitutto di democrazia ed emancipazione, di libertà d’espressione e d’informazione, di diritto al dissenso e rispetto dell’opposizione, di costruzione dell’alterità e autodeterminazione. Temi, cioè, che riguardano ciascuno di noi, in prima persona.
Da un mese e mezzo per le strade di Bujumbura scendono decine di migliaia di giovani cresciuti in un Paese in cui, nonostante la guida decennale di un presidente dal pugno di ferro, è maturato, forse più tra la popolazione che nelle istituzioni nazionali, il “mango della democrazia” di cui sentii parlare nel 2005. Sanno di non essere schiavi e di non voler più essere considerati tali, così oltre ai presìdi e alle barricate in diversi quartieri della capitale, si sono anche riversati su twitter, dove ripetono #sindumuja al resto del mondo. Usano i socialmedia per adunarsi e organizzarsi, ma anche per aggirare la censura delle radio private, le prime strutture ad essere state chiuse dalla polizia un mese fa e poi distrutte dai gruppuscoli paramilitari filo-governativi. Il Burundi del 2015 è un Paese in cui non attecchisce più il discorso etnico: sui monumenti alle vittime del genocidio fu scritto «Plus jamais ça» e a veder sventolare ramoscelli durante i cortei c’è da sperare che ora, almeno ora, quell’utopica frase sia vera. Nel Burundi di quest’anno le donne vanno in piazza dell’Indipendenza e affrontano blindati e lacrimogeni per ribadire il rispetto della Costituzione nazionale: «Le nostre rivendicazioni sono chiare: il ritiro della candidatura del presidente Nkurunziza, la riapertura dei media privati e il risarcimento per tutti i danni che hanno subito», dice la giornalista e documentarista Natacha Songore. Nella mobilitazione di questi giovani, però, c’è anche dell’altro, come l’assunzione di un ruolo politico, sia come individui, sia come generazione. Ad esempio, Pamela Karekaze afferma: «Prima delle manifestazioni, mi consideravo un’attivista culturale, ma siccome mi hanno accusato d’aver organizzato il golpe, ora sono più che mai determinata a battermi contro questo regime». Più ampiamente, la poetessa Ketty Nivyabandi spiega: «È impossibile restare in silenzio dinnanzi a quel che accade in Burundi. Noi siamo una generazione di africani che non ha conosciuto la lotta per l’indipendenza. Ed eravamo troppo giovani all’epoca delle lotte per il multipartitismo. Per cui sta a noi, oggi, lottare per la libertà nel nostro Paese».
Da un lato, dunque, i politici burundesi, specie al potere, stanno iscrivendo la loro azione nel reale, direbbe Fanon, ma dall’altro i manifestanti di Bujumbura si situano nel quadro della storia. Per quanto al momento non si possa prevedere come si svilupperanno gli eventi, quel che appare certo è che gli oppositori difficilmente faranno passi indietro, soprattutto perché il loro agire sta avendo una eco molto estesa, ben oltre i confini nazionali.
Il Burundi, oggi, non è periferia del mondo, ma il modello cui confrontare il nostro principio democratico e il nostro grado di partecipazione.
#Burundi2015
you are wiser
you are stronger
you are kinder
you are softer
you are bigger
you are brighter
than this night.
(Ketty Nivyabandi, 2 giugno 2015, twitter)
NOTE:
[1] Il tweet sulla ricandidatura di Nkurunziza del corrispondente di “France24”, a cui successivamente è stato ritirato l’accredito giornalistico perché accusato di «informazione di parte».
[2] Il primo appello su fb alla mobilitazione dell’attivista Pacifique Nininahazwe.
[3] Della distribuzione di armi agli Imbonerakure ne scriveva un anno fa Riccardo Bottazzo su “Frontiere News”.
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[…] 7 Vedi in particolare le riflessioni degne di nota dell’antropologa Marta Mosca sulla complessità del contesto socio-politico burundese: http://www.qcodemag.it/2015/09/20/la-complessita-sociale-del-burundi/ ; ed il contributo originale dell’antropologo Giovanni Gugg: http://frontierenews.it/2015/06/costruire-la-democrazia-in-burundi-una-lezione-anche-per-leuropa/ […]
Grazie Giovanni per questo articolo ricco di spunti di riflessione. Emerge molto chiaramente come la democrazia, o meglio la lotta per la democrazia, la rivendicazione di principi democratici da parte di una grossa fetta della popolazione burundese intervenga da un lato per consolidare i traguardi faticosamente raggiunti con la fine della guerra, e dall’altro per uscire dallo stato di silenzio e sottomissione in cui un regime sempre più autoritario vuole confinare la popolazione. Evidente, dunque, come la democrazia di cui ci stai parlando sia perfettamente raccontata nel suo contesto: quello di un governo autoritario che ha a che fare con un popolo in cui il “mango della demcorazia”- come lo definisci tu – è maturato. Coraggio a tutto il popolo burundese a continuare su questo cammino!
Pretendere di parlare di democrazia nell-assoluto, indipendentemente dal contesto, se non fosse semplicemente retorica neocoloniale standard da giornalista occidentale, sarebbe semplicemente un idiozia.