Sarajevo (Bosnia-Erzegovina) – Oltrepassati i venti anni da quell’11 luglio del 1995, quando 8372 uomini bosniaci furono massacrati a Srebrenica, nella Bosnia orientale, da parte delle forze serbo-bosniache, in una città designata dalle Nazioni Unite, come rifugio sicuro.
E così dopo Metz-Yeghern, Shoah, Cambogia e Rwanda, riconosciuti dalla Comunità Internazionale, un altro genocidio si è consumato in una guerra da 100.000 vittime, combattuta tra le linee etnico-religiose di ortodossi serbi cristiani, bosniaci musulmani e croati cattolici.
Nel maggio del 1993 l’ONU istituì come zone protette le città di Sarajevo, Tuzla, Zepa, Goražde, Bihać e Srebrenica. Nel luglio del 1995, l’area di Srebrenica, protetta dai 400 olandesi delle Nazioni Unite, subì un’offensiva dalle truppe della Vojska Republike Srpske, che entrarono definitivamente nella città. Il generale Ratko Mladić, con l’appoggio dei gruppi paramilitari, guidati da Željko Ražnatović, fecero di Srebrenica simbolo e prezzo dell’inazione internazionale.
“La guerra non finirà mai, fino a quando tutte le vittime saranno ritrovate, riconosciute e sepolte”, ci dice Azra, che ha ritrovato i resti di suo padre soltanto lo scorso anno. Ora sono custoditi in una delle centinaia di bare drappeggiate di panno verde, che riposano insieme a 6241 altre vittime. Continua “I combattimenti non ci sono più, ma ritornano rabbia, rancore e lacrime quando una nuova fossa comune viene individuata e il processo ricomincia da capo”.
Fino ad oggi, gli esperti forensi hanno riconosciuto poco meno di 6500 vittime, da 93 fosse comuni e 314 siti superficiali. Secondo l’elenco ufficiale dell’International Commission on Missing Persons sono classificati come “mancanti”, 7789 abitanti di Srebrenica, i quali vengono considerati vittime della strage del 1995, dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia.
Il 16 marzo 2006 il Tribunale dichiara che gli incriminati per l’eccidio di Srebrenica sono 161, 124 sono stati già processati. 43 dichiarati colpevoli, otto assolti, 25 scagionati dalle accuse, quattro trasferiti alle rispettive corti statali e sei nel frattempo deceduti. 37 i processi ancora in fase di svolgimento, tra cui quelli su Radovan Karadžić e Ratko Mladić.
“Srebrenica era una prigione, non un’area protetta dai caschi blu” racconta Aleza, oggi una donna di 53 anni. “Eravamo in 9000 a Srebrenica. Siamo diventati 42.000. Sfollati interni da otto paesi circostanti. Rifugiati provenienti dalle montagne che segnano ancora il corso del fiume Drina. Bambini senza cibo ne vestiti. Anziani senza acqua. Anche l’aria puzzava. Ecco cosa era Srebrenica”.
Stringendo la mano di sua figlia Amelia di 24 anni, all’epoca poco meno di una bambina, continua “Con altre 25000 persone, camminammo a piedi verso Potocari. Erano sei chilometri. Eravamo solo donne e bambini. La mia famiglia fu separata e da allora non vidi più Aiden, il papà di Amelia. Ammassati come bestie su vecchi camion a gasolio ci portarono a Kladanj e poi a Tuzla. A più di 100 chilometri dalla mia famiglia, da casa mia, dalle mie cose, dai miei ricordi. Non so ancora dov’è mio marito”.
Il dottor Sejad Mujkanovic, all’epoca parte delle milizie musulmane locali, ha gli occhi induriti dalla vita, come tutti qui. Guarda spazi vuoti che nessuno sa riempire. “Ero costretto ad amputare gambe e braccia senza anestetici, sotto le urla disumane di gente che conoscevo. Arrivarono i gruppi paramilitari serbi, legati all’odio di Mladić. A questi si unirono i miei vicini di casa. Li potevo riconoscere mentre rubavano, devastavano e incendiavano case, profanavano moschee e chiese senza nessun pudore, uccidevano fratelli con cui, fino al giorno prima, pranzavano insieme”.
E’ il mese del Ramadan e all’alba ogni mattina uomini, donne e bambini, iniziano il loro cammino verso la moschea nella città di Zvornik, oggi sotto il controllo serbo. A 50 chilometri da Srebrenica, nei raid del 1992 di polizia, militari e forze paramilitari ultranazionalisti serbe, furono uccisi almeno 750 bosniaci e furono espulse dalla città le rimanenti famiglie musulmane. In quegli anni, in Bosnia due milioni di persone furono costrette a lasciare le proprie case per fuggire da violenze e persecuzioni.
Incontriamo Hana. Ha 42 anni e non ha figli. Indossa il velo in quel modo particolare delle donne bosniache, con un nodo visibile all’esterno, ma con la stessa rigorosità che insegna il Corano. E’ penoso il suo racconto. Sa di amaro e mette a nudo l’ignobile essenza dell’essere umano. “Mi hanno violentata sulle montagne intorno a Srebrenica. Non so il luogo. Ne chi. Il capitano si faceva chiamare Slobodan ma non so se era il suo vero nome. Aveva una mimetica verde scuro, sporca di terra. Ordinava ai suoi uomini di farmi violenza. Hanno usato posizioni e ferocia che una ragazza di 22 anni non poteva capire. Sanguinavo dopo ogni rapporto, non so da dove. Le mie gambe erano sempre sporche di sangue. Mi toccavo ma non sentivo cosa sanguinava. Dopo la prima volta in cui il capitano si scagliò impetuosamente su di me non riuscivo più nemmeno a piangere. Lui si compiaceva mentre i suoi uomini lo guardavano abusare di me e aspettavano agitati il loro turno. Ero così piccola”. Hana si ferma. “Non ho mai potuto avere figli”. 50mila donne subirono violenza sessuale nel corso del conflitto bosniaco. Nessuno fu punito. Nessuna condanna.
E mentre a Sarajevo, nella Snajperska aleja, tuonano ancora le scritte sui muri “Pazi Snajper” (attenzione cecchini) e “Opasna zona” (zona pericolosa), il terreno intorno a Srebrenica continua a inghiottire ossa e resti di uomini mai ritrovati.
“Fucili, granate, bombe artigianali e carri armati serbi seppellivano ogni ora ragazzi, uomini, anziani. Quando oggi trovi un osso non c’è modo di sapere chi si ritrova. Un osso è solo un osso. Tu non sai a chi appartiene. Se a un cane o a un uomo” dice Emir.
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