Noi iracheni sunniti devastati da Isis e milizie sciite

Laith è uno dei tanti giovani iracheni emigrati in Giordania alla ricerca di un futuro migliore, lontano dalla violenza settaria e dalle crudeltà perpetrare dall’ISIS. È arrivato ad Amman nel 2013 e da allora si divide fra università e lavoro, cercando di vivere il più possibile lì quella vita normale che gli è stata negata a Bagdad. Prima di quella data, nel 2012, la percentuale di iracheni presenti sul territorio del Regno Hashemita era pari al 7%, ma, col precipitare degli eventi nella Mezzaluna fertile lo scorso anno, l’UNHCR ha registrato un afflusso giornaliero di 250 persone in cerca di asilo determinate ad oltrepassare il confine nord-orientale del Ruwashid. Oggi questo numero continua ad aumentare e sempre più iracheni si aggiungono ai palestinesi e ai siriani già presenti in Giordania, che è ormai uno Stato dalla popolazione estremamente composita. Laith ha accettato di raccontarci la sua storia e di parlarci di come vive la sua comunità lì, donandoci una testimonianza che vale più di mille statistiche e per la quale -oltre che per la sua amicizia- non smetterò mai di ringraziarlo. 

Cosa ti ha spinto a lasciare il tuo Paese?
Principalmente, il fatto che la situazione non fosse sicura. Qui, invece, lo è di più. È difficile da spiegare, avrebbero potuto rapirmi o uccidermi solo perché sono sunnita. O ancora, le forze armate avrebbero potuto arrestarmi e torturarmi per una semplice omonimia. La gente perde l’uso degli arti, la memoria e persino la vita prima che salti fuori che si è trattato di un errore! Sono partito perché ho visto persone morire; persone che conoscevo, che vedevo ogni giorno e che all’improvviso sono scomparse. Sono partito perché non mi sentivo più al sicuro e sentirsi al sicuro è un diritto umano inalienabile, così come potersi costruire una vita, e questo non può accadere in Iraq! Perciò, piuttosto che sprecare tempo in Giordania, ho deciso di conseguire qui il mio master in ingegneria informatica.

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Quanti iracheni ci sono in Giordania?
In passato ce n’erano circa 700.000, che si sono poi ridotti a 195.000 quando nel 2000 la situazione in Iraq era migliorata. Molti, allora, decisero di tornare indietro, ma c’era comunque chi continuava ad andare in Giordania per richiedere un visto per l’estero. La maggior parte di loro è andata negli Stati Uniti o in Europa. La Giordania è una sorta di step temporaneo.

Com’è la loro condizione?
Né troppo cattiva né troppo buona. La Giordania è un paese davvero costoso, per cui la maggior parte delle persone che viene qui è costituita da gente ricca che può permettersi di affrontare le spese scolastiche ed il costo della vita in generale. Coloro che invece non godono di una situazione economica rosea vengono per cercare un lavoro, usufruire degli aiuti delle Nazioni Unite o altro ancora. Tuttavia circa il 70% di loro si trova in buone condizioni finanziarie.

Esiste una sorta di associazione che raccolga i profughi iracheni?
Non credo, non ne ho mai sentito parlare.

Fate comunque gruppo, in qualche modo?
In effetti, trascorro molto tempo con i miei amici iracheni. Ci sono coffee shop qui, ad Amman, dove ci sono praticamente solo iracheni e puoi sentirti come a casa. Come nel distretto di al-Rabiah. È la chinatown degli iracheni ad Amman. Edifici e giardini appartengono tutti ad iracheni che hanno investito in città dopo la guerra.

Come sono i vostri rapporti con le altre comunità, come ad esempio quella siriana e palestinese, e con il governo?
Buoni in entrambi i casi.

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Come commenteresti la situazione attuale dell’Iraq?
La situazione lì ora è pessima, così come nell’intera regione, con il conflitto tra sunniti e sciiti. La minaccia peggiore è costituita dalle bombe: non puoi mai sapere quando e dove esploderanno.

Eri in Iraq durante i bombardamenti del 2003?
Sì, c’ero. Siamo andati in campagna, a casa di mio nonno che è fuori dalla città, e siamo rimasti lì 20 giorni ad aspettare che finissero. Poi siamo tornati a Bagdad.

E per quanto riguarda l’ISIS?
Personalmente, credo che l’ISIS sia nato nel contesto della lotta nazionalistica irachena, ma non rappresenta affatto l’Islam. Una delle ragioni principali per cui esso è affiorato in superficie è stata il ritiro dell’esercito americano. Gli Stati Uniti sono stati la causa scatenante di tutto questo casino; hanno rovinato il Paese. Non abbiamo il potere di fermare l’ISIS, perché gli americani hanno dissolto l’esercito iracheno dopo la guerra e la gente ha perso fiducia nella sicurezza, da allora.

Che ruolo credi che abbia avuto il petrolio in tutta questa storia?
Tutto quello che ho da dire su questa faccenda è che se il nostro paese non avesse avuto il petrolio, non sarebbe accaduto nulla: nessuna guerra, nessun conflitto. Avremmo potuto essere uno dei più bei paesi della regione.

Come vivono i tuoi parenti rimasti in Iraq?
Passano la maggior parte del loro tempo in casa. Mio padre lavora lì vicino, non ha molto bisogno di uscire. Inoltre è sotto la minaccia delle milizie, perché è sunnita e spesso ci sono dei raid sciiti.

La situazione a Bagdad è diversa da quella del resto del Paese? 
Beh, come la maggior parte del territorio si trova sotto il controllo dello Stato Islamico. È sottoposta ad un sistema islamico, sono nate scuole islamiche e l’esercito iracheno dov’è? Dove sono i soldati americani? Perché non prendono degli aerei e li annientano? Li stanno lasciando fare.

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Riesci a fare qualche previsione sul futuro dell’Iraq?
Qualche anno fa credevo che sarebbe stato migliore, ma adesso…

E per quanto riguarda i tuoi studi in Giordania? Cosa hai intenzione di fare dopo?
L’anno scorso avevo pensato di tornare in Iraq e finire lì il master, ma ho deciso di restare qui a lavorare, proprio in ragione delle mie previsioni sul futuro del Paese. Oppure potrei andarmene in Australia, non lo so. Ormai ho parenti dovunque, anche in Svezia, Norvegia, Nord America.

E gli altri giovani iracheni?
La maggior parte di loro è già emigrata, soprattutto in Turchia. Sul web si possono trovare molti articoli riguardanti questa emigrazione di massa della gioventù irachena e ciò non è certamente positivo per il paese. Si sta svuotando. Sempre di più.


Profilo dell'autore

Annamaria Bianco
Giornalista pubblicista dal 2012 e dallo stesso anno vagabonda fra Europa, Medio Oriente e Nord Africa. Traduttrice, anche. Il cuore come il porto della sua Napoli, scrive per lo più di interculturalità e mondo arabo-islamico.

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