Il campo profughi di Souf si trova a pochi chilometri di distanza dalle rovine romane di Jerash, secondo polo d’attrazione turistica in Giordania dopo Petra, verso cui si dirigono ogni giorno centinaia e centinaia di visitatori. Eppure, la quasi totalità di questi ultimi ne ignora completamente l’esistenza.
Dei 59 campi-profughi palestinesi riconosciuti dall’UNRWA fra Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza, pochi sono noti al resto del mondo, e per lo più per circostanze tragiche, come ad esempio quelle del massacro di Sabra e Shatila o del più recente dramma di Yarmouk. Tuttavia, ve ne sono altri, invece, che non hanno subito lo stesso destino di distruzione e che hanno continuato a svilupparsi, fino a diventare delle vere e proprie “città nelle città”. Il Souf camp rientra tra questi.
Così come per gli altri campi, accedervi non è affatto semplice: per ragioni di sicurezza è necessario fornirsi di specifici permessi delle Nazioni Unite o dei ministeri di competenza, a seconda delle circostanze, che non sempre vengono rilasciati. Nel mio caso -e in quello del resto del gruppo- l’autorizzazione è arrivata poche ore prima della visita pianificata, quando avevamo ormai perso la speranza di entrarci. Il nostro veicolo d’accesso è stato il Women’s Centre del campo, unico luogo che ci hanno consentito di vedere e dove siamo stati autorizzati a scattare foto.
A riceverci, fra fiori sparsi qua e là, alberi d’ulivo e murales colorati sugli edifici bianchi e azzurri del complesso, un’anziana donna velata e un po’ giunonica di nome Nuha. Sorride, ci saluta e ci dà il benvenuto in calze nere e ciabatte, cominciando subito a parlarci del campo e dell’organizzazione delle donne di cui fa parte. Il suo delicato accento palestinese si diffonde tutt’attorno, non appena ci disponiamo in cerchio all’ombra del porticato. L’atmosfera è così accogliente da far quasi dimenticare la tragedia della Nakba, almeno per qualche istante: l’illusione della normalizzazione.
Il Souf Camp è uno dei 13 campi profughi per Palestinesi esistenti in Giordania e non è neppure fra i più antichi; è stato infatti creato dopo la guerra del ’67, quando lo stato di Israele era già stato fondato e l’esodo della popolazione palestinese era ormai in atto. Nato come campo di emergenza, oggi ricopre un’area di 0.5 km quadrati e conta più di 20.000 rifugiati, secondo il profilo ufficiale tracciato dall’UNRWA.
Il Women’s Programme Centre è stato creato soltanto in seguito, nel 1985, quando la situazione ha raggiunto una certa stabilità, con l’obiettivo di sviluppare le abilità e le capacità delle donne, perché si emancipassero economicamente e professionalmente, attraverso programmi specifici finalizzati al loro empowerment. Da allora, il centro svolge un ruolo fondamentale nella vita all’interno del campo e al di fuori di esso, creando reti con le comunità che vivono all’esterno nonché con ONG ed altre realtà di Amman, la capitale del Regno Hashemita di Giordania.
In poco tempo, le donne sono state in grado di mettere su corsi di fotografia, di preparazione per l’accesso all’università, lezioni sui diritti civili, campagne contro il fumo e programmi di prevenzione nei confronti della delinquenza giovanile, prendendo contatti con avvocati. Il tutto in collaborazione con l’UNICEF, che finanzia parzialmente le loro attività coi minori. Oggi, tuttavia, le loro attività pagano le conseguenze della crisi dell’Agenzia per i Rifugiati, che dispone di un budget sempre più esiguo per aiutare i profughi, che vivono principalmente di fondi dei privati o del Governo, elargiti a singhiozzi.
Il risultato è che le classi sono sempre più affollate –al momento gli studenti sono 750- e non dispongono di un numero sufficiente di insegnanti. Problema che non può essere arginato diversamente dal momento che gli abitanti del campo non sono autorizzati a frequentare le scuole pubbliche al di fuori, per mancanza di spazio, e l’università risulta per loro troppo cara, poiché le tasse per i non-giordani ammontano al doppio della retta normalmente prevista. Lo stesso discorso vale per il lavoro e l’edilizia: chi non ha un National Number non può lavorare all’interno del paese né costruire case. Pertanto, molti profughi sono emigrati nei Paesi del Golfo o negli Stati Uniti nel corso degli anni per potere procurare da vivere a se stessi e alle proprie famiglie. È stato grazie a loro che le tende hanno progressivamente lasciato il passo agli edifici che oggi costituiscono il campo, i cui abitanti cercano di vivere il più possibile una vita normale, nonostante tutte le difficoltà.
Sulle lavagne delle aule si leggono appunti di geografia e resistenza; gli stessi racconti che le ragazze intessono delicatamente ogni giorno fra i fili degli abiti realizzati all’interno del laboratorio di sartoria. Le mura delle case trasudano tenacia. Il tè che preparano ed offrono a chi gli fa visita, con quell’atteggiamento d’ospitalità intrinsecamente arabo, ha come una dolcezza stemperata di malinconia, eppure riscalda ogni singolo centimetro del corpo.
Le donne, con indosso il tradizionale abito palestinese, nero con ricami rossi, conducono i loro atélier con quieta perseveranza e mostrano orgogliose il frutto del proprio lavoro. Che si tratti di laboratori di cucito, saloni di bellezza, palestre, asili nido, scuole elementari, medie o superiori, poco importa… si prendono cura della propria comunità con un senso di maternità amplificato, cercando, come possono, di fornire un futuro ai propri giovani, per crescerli non solo come profughi, vittime della storia, ma con il rispetto e la dignità dovuta ad ogni essere umano.
È così che il campo ricorda al resto del mondo la sua esistenza, specialmente a chi si ostina a non volerla vedere: con la sua coraggiosa quotidianità.
Profilo dell'autore
- Giornalista pubblicista dal 2012 e dallo stesso anno vagabonda fra Europa, Medio Oriente e Nord Africa. Traduttrice, anche. Il cuore come il porto della sua Napoli, scrive per lo più di interculturalità e mondo arabo-islamico.
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