Intervista di Monica Ranieri e Joshua Evangelista
Uno degli ultimi jugoslavi. Ama definirsi così il talentuoso e pluripremiato regista serbo Srđan Dragojević. Ascoltando le sue parole, ma soprattutto guardando i suoi film viene proprio la voglia di comprendere cosa ci sia davvero dietro questa sua jugonostalgia. Non si tratta solo dell’orientamento politico che lo ha portato a sedere nelle fila del parlamento serbo come deputato per il partito socialista, e non di un’acritica adesione ad anacronistici valori di un passato forse romanzato. La scelta di cuore di Dragojević sembra invece essere ben radicata in una appassionata e lucida comprensione delle dinamiche storiche e sociali che hanno determinato l’evolversi degli eventi nei Balcani e le trasformazioni in atto nella società serba. Il suo cinema, eclettico, dinamico, pulsante, rappresenta una valida e necessaria alternativa all’impacchettamento balcanico “made in Kusturica”, un modo per avvicinarsi alla storia della Serbia e della ex Jugoslavia che vi conquisterà per la sua notevole ricchezza ed originalità espressiva, la profondità psicologica, e la costante ricerca di equilibrio tra la componente drammatica ed quella ilare della vita. Purtroppo, nonostante i suoi film abbiano sempre riscosso notevole successo in patria e all’estero, aggiudicandosi una pletora di riconoscimenti e premi, i nostri sconsiderati schermi gli hanno riservato poco spazio. A rendere giustizia ci ha pensato l’organizzazione del MedFestival – Racconti dal mare di mezzo, che, al Maxxi di Roma ha proiettato The parade (Parada), commedia con cui Dragojević ha affrontato la delicata situazione dei diritti LGBT in Serbia. È stata la fortunata occasione per incontrare il regista.
Nel Gay Pride del 2010, a Belgrado, ci sono stati più di 150 feriti. Poi è uscito il suo film, The Parade, in cui attacca apertamente l’omofobia in Serbia. E ora, nel 2015, l’ultimo Pride è stato…
Dieci giorni fa, sì. È stato un successo.
Cosa è cambiato dal 2010?
Non sono un artista pazzo che pensa che i propri film possano cambiare le cose. Eppure The Parade ha sicuramente agevolato un processo di distensione da parte della maggioranza omofoba verso la minoranza LGBT. Il film è stato proiettato numerose volte al cinema e in televisione. In appena quattro anni è diventato una sorta di classico. Questo ha permesso a molta gente che non aveva mai avuto contatti con l’omosessualità non solo di gradire il film in sé, ma anche di maturare un’attitudine diversa nei confronti della comunità LGBT.
Sono molto orgoglioso di aver svolto un ruolo in questo processo, che è comunque inevitabile. Stiamo cambiando, accettando valori differenti, la società serba era molto più chiusa durante gli anni Novanta a causa delle sanzioni internazionali e della guerra e c’è voluto del tempo per aprirsi ad idee diverse del mondo. La possibilità che le nuove generazioni hanno avuto di viaggiare attraverso l’Europa ha anche contribuito: prima non era possibile viaggiare, il paese era completamente sigillato. Il mio primo film, quello con cui mi sono diplomato all’accademia nel 1992, riscosse molto successo in Jugoslavia ma non lo potei presentare da nessuna parte a causa delle sanzioni, che colpirono anche l’arte e la cultura. L’unico festival che accettò il mio lavoro fu un piccolo festival italiano, a Perugia [l’Umbria Film Festival del ’93, dove vinse il Grand Prix Award, ndr].
Cosa blocca il cambiamento?
La nostra è una società patriarcale, come in Montenegro, mia madre viene da lì, ed è anche peggio: non è facile accettare diversi stili di vita e differenti concezioni. Non ha a che fare solo con la sessualità, ma anche con un modo di vivere, di comportarsi, su cui si basa la subcultura LGBT, legato all’affermazione della libertà di scelta, del pensiero tollerante, di un’attitudine diversa nei confronti dell’arte, del tempo libero. Si tratta di un tipo di pensiero totalmente opposto a quello tradizionale della cultura patriarcale.
Tornando alle sanzioni, quanto hanno influenzato il cinema serbo, e di conseguenza il suo stesso cinema?
Mi hanno influenzato, chiaramente. Il mio primo film era in stile Almodovar, con colori brillanti, una commedia fantastica ed eccentrica sull’amore, parlava di un angelo e del demonio che influenzano la vita di una coppia cercando di tenerli uniti. Dopo ho cominciato a girare film molto tristi, deprimenti, oscuri, sulla guerra. Tutti sono stati influenzati, anche chi non ha imbracciato le armi ed è stato ferito ha subito profonde influenze.
Quando stavo girando We are not angels (Mi nismo andjeli), il mio primo film, c’era gran mobilitazione in Belgrado a causa della chiamata in guerra contro la Croazia. Noi ci nascondevamo, di giorno giravamo il film e la notte dormivamo in posti sempre diversi per depistare la polizia militare. Quando, alla fine delle riprese, tornai a dormire finalmente nel mio appartamento, i poliziotti bussarono alla mia porta e mi invitarono a seguirli per prestare servizio. Fui fortunato però: il mio professore era stato ministro della cultura e riuscì a convincere i capi militari che non avevano bisogno di me al fronte, e che mi lasciassero finire il film. Quindi We are not angels, anche se è una commedia, ha subito l’influenza della guerra. E lo è persino The Parade, incentrato su personaggi che ho esplorato nel mio secondo film, Pretty Village Pretty Flame (Lepa Sela Lepo Gore), sulla guerra in Bosnia, riprendendo le loro storie dopo quindici anni.
E perché ha deciso di ricollocarli in un film sui diritti LGBT?
Beh, io ho molti amici omosessuali a Belgrado e sono testimone di come si svolge la loro vita quotidianamente. È pratica regolare che tifoserie calcistiche e neonazi irrompano nei loro club e comincino ad umiliarli e picchiarli. Devono costantemente nascondersi. Così ho avuto l’idea di girare un film su questo soggetto, pur non sapendo bene come procedere: esistono diversi film sul tema in Serbia, ma sono per lo più scadenti polpettoni pensati per gay, che nessuno guarda. Così ho realizzato che lper sostenere la causa serviva un approccio innovativo. Bisognava andare in una direzione completamente diversa, girare un film molto più orientato al pubblico mainstream. Una scelta rischiosa: la maggior parte del pubblico è molto omofoba e non potevo prevedere come sarebbe stato accolto. Poi ho riflettuto: negli anni Novanta giravo film di guerra in cui c’erano anche innesti comici. In guerra cose orribili si mescolano a momenti di humor, perché quando la tua vita è in pericolo si innesca un meccanismo di difesa che ti porta alla risata. Molti veterani raccontano che non si sono mai divertiti così tanto come in guerra. Poiché sai di poter morire il giorno dopo, ti senti vivo; sai di dover combattere contro Thanatos, contro la paura della morte, e quindi cerchi anche il lato umoristico di te stesso. Se avevo utilizzato un simile approccio con la guerra avrei potuto farlo anche in questa occasione.
Quindi la ragione del suo successo è nella scelta del punto di vista?
Probabilmente. Il film ha avuto un grande successo anche in Bosnia, Slovenia, Macedonia e in gran parte dell’ex Jugoslavia è in atto un cambio di prospettiva sulla questione: quando il ministro della giustizia sociale della Croazia ha visto il film, ha invitato veterani di guerra croati a scortare il Pride di Spalato, una città molto omofoba. Ok, loro non hanno affatto accettato, ma il punto è che i film possono influenzare la vita. Trovo questo processo molto interessante. Di solito è il contrario.
Ha avuto impedimenti nel girarlo?
Non dico che lo abbiamo girato in segreto, ma senza giornalisti e pubblicità: c’è un’atmosfera notevolmente omofoba a Belgrado, e non volevamo incursioni violente sul set quindi lo abbiamo pubblicizzato solo prima della distribuzione. Qualcuno ha rotto i finestrini della mia macchina parcheggiata davanti casa e sono successe altre cose spiacevoli. Poi, durante le due o tre settimane di promozione prima della distribuzione sono apparsi articoli davvero poco gradevoli sui tabloid. Eppure quando la gente ha visto il film tutto questo si è fermato, tutti hanno capito che si trattava di un buon film. Non è automaticamente un film pro-gay, è piuttosto un film per la vita, a favore dell’amore, anche gli stupidi lo hanno capito.
In un’intervista ha detto che nel suo paese il lavoro del regista è una sorta di hobby. In che senso?
Essere un regista di film è ovviamente un hobby, perché ci sono pochi soldi ed è molto più difficile ottenere i fondi. Quindi per vivere devo girare anche le pubblicità e per sovvenzionare il mio prossimo film pubblicherò due libri per bambini (ero uno scrittore prima di cominciare con il cinema). Con The Parade abbiamo portato al cinema un milione di persone in Europa orientale, ma la distribuzione risparmia sui soldi che ti spetterebbero, sei l’ultima ruota del carro. Quindi anche se il film ha avuto grande successo, noi abbiamo guadagnato molto poco.
Per questo lavora anche per la televisione?
No, io odio la televisione. Ho semplicemente girato un pilot molto intelligente e fresco per una serie tv, su come gli attori vivono in Serbia: tutti pensano che siano ricchi perché famosi ma molti di loro sono sul lastrico, non hanno neanche i soldi per pagarsi gli affitti, prendono prestiti dalle banche e non riescono a ripagarli, molti miei amici attori sono stati frattati. Sono casi sociali [ride, ndr]. Ma non sappiamo se diventerà davvero una serie, forse è troppo intelligente per la televisione serba, che abbonda di programmi davvero brutti ma a basso costo. Dopo che giro una pubblicità non la rivedo mai sul piccolo schermo. Si tratta solo di soldi, certo, ma mi rifiuto di guardare la televisione.
A proposito di tv serba, è memorabile il modo in cui l’ha raccontata in The Wounds (Rane): un talk show in cui una bella soubrette intervistava gangster pronti a sparare e distruggere lo studio.
Proprio ora è in onda un reality molto popolare in Serbia in cui il più famoso degli ospiti è uno dei più grandi criminali serbi: passa il tempo raccontando di come uccide le persone e di come è riuscito a rubare soldi tedeschi. Racconta tutto questo in televisione, è visto ogni giorno dai bambini. La situazione bizzarra che vedete in Rane l’ho inventata, ma è nulla se paragonata alla realtà della televisione contemporanea.
Perché dopo aver girato Rane è dovuto andare all’estero?
Il film fu un successo, viaggiò di città in città, sebbene la sua pubblicità fosse stata proibita dal governo. Questo mi fece intuire che non sarei più stato in grado di girare altri film finché Milosevic fosse rimasto al potere. Quando ricevetti una proposta dalla Miramax partii immediatamente, sebbene odiassi gli Stati Uniti. Fu una sfida interessante, che diede alla mia famiglia la possibilità di vivere per un paio di anni una vita decente. Tuttavia in quel paio di anni lì non accadde nulla. Avete presente gli stereotipi sugli studios e i produttori americani? Tutto vero.
[Squilla il telefono. È Goran Jevtic, uno degli attori di The Parade]
Goran Jevtic è uno degli attori del film, è davvero un mio grande amico, è uno di quelli che ho convinto a fare il film perché è stato picchiato più di una volta per il suo essere gay. Stiamo promuovendo insieme un libro in cui ho pubblicato tre mie sceneggiature che ho virato in una forma a metà tra la sceneggiatura e il romanzo. Si intitola Before I say hello to my worms, e per vermi intendo quelli che si cibano di te quando sei morto: se riuscirò a fare tre film da queste sceneggiature mi riterrò soddisfatto della mia carriera.
Quali sono i suoi registi di riferimento?
È davvero complicato parlare delle influenze. Sono stato influenzato da molte cose: mi piacciono i film americani degli anni Sessanta, ma anche quelli degli Ottanta. Perfino le teenager comedies come Sixteen candles [in Italia “Un compleanno da ricordare”, ndr]. Sono anche un grande fan di Wes Craven. L’unico regista europeo che mi ha influenzato credo sia stato Kubrick, non me ne vengono altri. Ok, forse Truffaut. E stimo Rohmer, ma non è che mi abbia influenzato: aveva una personalità maniacale, posso solo ammirarlo.
Cosa pensa degli altri registi serbi?
Li odio. Odio la maggior parte di loro, sono mediocri vermi [ride].
Perché, secondo lei, la maggior parte degli europei ha un’idea cinematografica (e non solo) della Serbia basata per lo più sui film di Kusturica?
Di Kusturica credo che tre film siano davvero buoni, tra cui Gatto nero, gatto bianco. Gli altri mi piacciono meno. È una persona molto carismatica ed energica, ovviamente i film non sono abbastanza per lui: in Serbia ha persino costruito un villaggio. Ha allargato i suoi interessi e credo che questo sia un peccato per il cinema. È normale che la gente pensi in quel modo: allo stesso modo quando si pensa all’Italia di oggi si pensa alle immagini di Sorrentino. E questo è ingeneroso. La gente è stupida e superficiale.
Cosa pensa del modo in cui la politica serba ha gestito la crisi dei migranti in transito nel suo paese?
Faccio parte del parlamento serbo, mi occupo di cultura, educazione ed ecologia. Detto questo, credo che la Serbia abbia mostrato il volto bello dell’Europa, un tipo di solidarietà che si suppone faccia parte dei valori europei. Non importa che non siamo parte effettiva dell’Unione Europea. Noi abbiamo affrontato la realtà dei rifugiati già durante gli anni Novanta, i serbi sono abituati a vivere con questo tipo di migrazione da venti anni e forse è per questo che siamo un po’ più sensibili alla guerra e alle migrazioni rispetto agli altri paesi dell’Ue. Siamo molto più poveri e abbiamo subito un attacco alla nostra economia maggiore rispetto a Slovacchia e Ungheria. Ti senti a disagio nel vedere come stanno andando le cose e sono molto orgoglioso che abbiamo trattato le persone provenienti da Siria, Afghanistan, Iraq in modo diverso. Ma è davvero difficile prevedere come questa situazione potrà evolvere, con un flusso maggiore di persone nel paese non so come potremo fare.
Potrebbe essere uno spunto per il suo prossimo film.
Come ho detto, ho già le sceneggiature per i prossimi tre film. Credo che sia sufficiente per me prima di morire. Sono piuttosto modesto e realista: con lo scenario contemporaneo nei Balcani, senza soldi, non sono sicuro di riuscire a realizzare più di tre film.
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