di Germano Monti
Può un autorevole quotidiano nazionale trasformarsi in un’agenzia di pubbliche relazioni di un dittatore? Si, almeno in Italia si può.
L’intervista in due parti effettuata dal direttore di Repubblica, Mario Calabresi, e dal giornalista Gianluca Di Feo al feldmaresciallo Al Sisi, rappresenta una pagina nera per il giornalismo italiano. Nel corso della lunghissima conversazione con il dittatore egiziano a proposito del martirio di Giulio Regeni, i due giornalisti non hanno posto nemmeno una domanda riguardante i ripetuti depistaggi tentati dalle autorità egiziane dopo il ritrovamento del corpo di Giulio (qui la prima parte dell’intervista, qui invece la seconda).
Meno che mai i due intervistatori hanno osato ricordare che in Egitto le sparizioni di oppositori, o presunti tali, sono all’ordine del giorno e che, meno di una settimana prima, anche il Parlamento Europeo aveva votato a grandissima maggioranza una risoluzione di condanna del regime egiziano, sia per la gestione della vicenda di Giulio, sia per le innumerevoli violazioni dei diritti umani.
Né Calabresi, né il suo vice Di Feo hanno chiesto conto al feldmaresciallo dell’assenza di collaborazione mostrata dalla polizia egiziana nei confronti del team di investigatori italiani al Cairo ormai da un mese. In compenso, si sono bevuti, senza battere ciglio e senza chiedere spiegazioni, le insinuazioni di Al Sisi nei confronti di non meglio identificati Stati e partiti “nemici dell’Egitto” e delle sue ottime relazioni con l’Italia, avallando silenziosamente quella versione di comodo più volte smontata proprio dai due giornalisti di Repubblica (Carlo Bonini e Giuliano Foschini) che seguono la vicenda di Giulio dall’inizio.
Il fatto che ad intervistare con queste modalità il dittatore siano stati il direttore ed il vicedirettore di Repubblica, anziché i due inviati che stanno conducendo da settimane un ottimo lavoro di inchiesta, non può che indurre a pensare che, dietro quell’intervista, vi sia stato un preciso obiettivo politico. In sintesi, Calabresi e Di Feo si sono assunti il compito di ripulire l’immagine del dittatore, di fronte ad un’opinione pubblica italiana fortemente impressionata e indignata per quanto avvenuto, fornendo ad Al Sisi un’autorevole tribuna per presentarsi come uno statista, preoccupato per la proliferazione di gruppi terroristici, per la stabilità del suo Paese e persino compassionevole con le persone costrette ad emigrare, quando chiunque si interessi alle vicende mediorientali conosce bene il trattamento riservato dalla polizia e dai militari egiziani ai migranti.
Va detto che Calabresi e Di Feo non sono stati i soli giornalisti italiani a mettersi al servizio di personaggi impresentabili. Prima di loro, nell’opera di ripulitura dell’immagine di un dittatore sanguinario, si era cimentata Monica Maggioni, che per ben due volte si è premurata di mettere le telecamere del servizio pubblico a disposizione di Bashar Assad, il tiranno siriano responsabile della feroce repressione che ha prodotto migliaia di morti sotto tortura, decine di migliaia di desaparecidos e la trasformazione di un movimento di popolo pacifico e riformista in una guerra che ha distrutto la Siria. Prima in veste di direttrice di Rai News, nel settembre 2013, poi in quella di presidente della RAI, nel novembre dello scorso anno, la Maggioni si è recata a Damasco per omaggiare il dittatore con due interviste che definire compiacenti è un eufemismo.
Di fronte a questi episodi, è necessario interrogarsi sul fascino, nemmeno tanto discreto, esercitato da personaggi che dovrebbero essere banditi da ogni consesso civile. Difficile non pensare che questo “fascino” sia strettamente legato ad un orientamento politico che tende a privilegiare la stabilità e le relazioni affaristiche rispetto a qualunque altro elemento, fosse pure la più efferata violazione dei diritti umani.
Un orientamento messo in difficoltà dal fatto che un cittadino italiano sia caduto vittima di un regime amico, verso il quale il nostro Primo Ministro si è più volte lanciato in spericolate manifestazioni di stima e di amicizia, caso unico (e imbarazzante) fra i leader dei Paesi che si vogliono democratici, i quali intrattengono con Al Sisi ottime relazioni, ma – per senso di opportunità o, più semplicemente, per pudore – si tengono lontani dal servilismo mostrato da Matteo Renzi.
Questo orientamento, percepibile anche nel decisionismo renziano nelle questioni di politica interna, sembra pervadere anche i media mainstream: dopo l’intervista di Repubblica, il caso Regeni è di fatto scomparso da quasi tutti i quotidiani ed i notiziari televisivi, come in obbedienza ad un ordine di scuderia. Se le cose stanno così, sarà necessaria una grande mobilitazione dell’opinione pubblica e della società civile per impedire che sull’intera vicenda cali l’oblio e che la richiesta di verità per Giulio Regeni non si dimostri solo uno slogan.
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