La “Fuga Perpetua” di Yuval Avital

Il compositore israeliano presenta un’opera icono-sonora i cui protagonisti sono rifugiati che raccontano le loro odissee attraverso i gesti


Nella vita di tutti “casa” rappresenta identità, protezione e intimità. È il punto cardinale di riferimento con cui l’essere umano orienta e misura costantemente la propria posizione nel mondo. Senza casa si è vulnerabili, instabili, disorientati, smarriti. In Fuga Perpetua, l’opera icono-sonoro dell’artista multimediale e compositore israeliano Yuval Avital, i narratori principali sono i rifugiati che raccontano in prima persona la propria storia.

Yuval-AvitalQuesta opera dedicata all’esperienza dei rifugiati è formata da proiezioni video, da un teatro sonoro e dall’esecuzione dal vivo del gruppo di musica contemporanea Meitar Ensemble. Lo scorso 12 marzo è stata presentata in prima assoluta al Teatro Luciano Pavarotti di Modena.

Come nasce l’idea di questa opera?

Fuga Perpetua nasce durante un dialogo tra me e Amit Dolberg, il direttore artistico del Meitar Ensemble di Israele. In un pomeriggio abbiamo parlato sul fare qualcosa insieme e dopo una lunga conversazione è uscita l’idea di fare un’opera in cui i protagonisti fossero i rifugiati. Questo è successo all’inizio del 2014, molto prima di questa ondata di flussi migratori. Dopo questa nostra idea, dentro di me sono stato colto da una paralisi totale nella quale capivo quello che volevo fare ma non riuscivo a trovare una chiave, la chiave morale per fare quest’opera. Ho capito che non volevo fare un’opera sui rifugiati, ma un’opera con i rifugiati. I rifugiati narrano la casa, narrano il viaggio, narrano loro stessi. Volevo creare un rapporto diverso che non si trova nel linguaggio giornalistico o documentaristico e che solo l’arte può costruire. Dal momento che avevamo il limite della lingua, ho deciso di utilizzare un metodo che ho creato in passato che si chiama “silent interviews”: interviste in cui i soggetti non devono dire niente ma mostrare i momenti significativi della loro vita con i gesti. I narratori protagonisti sono 29 rifugiati che vivono tra Italia, Inghilterra e Africa.

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La sua opera contiene una partitura musicale per ensembleun’installazione sonora, una video proiezione multipla e una performance  collettiva. Tutto questo è realizzato in diversi paesi. Quanto è stato difficile collegare tutti questi elementi e racchiuderli negli 80 minuti di durata dell’opera?

Quando realizzo un’opera icono-sonora penso al suono e all’immagine nello stesso tempo. Ma tutti gli altri partecipanti hanno avuto bisogno di una fiducia grande nei miei confronti. Soltanto io avevo nella mia mente quello che sarebbe accaduto il 12 marzo al teatro di Modena. Ognuno aveva solo un pezzo. E’ stato molto difficile collegare tutti questi elementi insieme, ma quando è successo è stata magia. Questa opera è piena di vita, piena di bellezza, piena d’umanità. E’ un’esperienza commovente ma priva della pornografia del dolore.

Il nome che usa per l’installazione sonora presente nella sua opera è “Mobile Sound Theater”. Che cosa rappresenta?

E’ un concetto che abbiamo sviluppato io e Tychonas Michalidis, compositore e performer elettronico dell’Università di Birmingham. Mobile Sound Theater crea una specie di sistema sorround ad altissima risoluzione, che virtualmente permette quasi di far camminare le voci. I duecento nastri di questo teatro sonoro sono le testimonianze in diverse lingue dei rifugiati e i suoni degli ambienti in cui si trovano.

Come ha scelto i narratori? E’ stata una scelta difficile?

E’ stato molto difficile, perché avevamo i soggetti coinvolti erano in stato di stress post traumatico e quindi molto fragili dal punto di vista psicologico. Perciò prima di scegliere le persone ho dovuto decidere il contesto nel quale andarle a cercare. E’ difficile selezionare i rifugiati nei centri di prima accoglienza, come per esempio quello di Lampedusa, perché le persone che sono lì non hanno voglia di aprirsi. Quindi abbiamo optato per i centri di seconda accoglienza, come il campo profughi di Kakuma in Kenya, dove c’è la stabilità necessaria per permettere alle persone di aprirsi. Tutto il percorso delle interviste con i rifugiati è stato seguito da Gerald Cupchik, professore di psicologia presso l’Università di Toronto. 

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E i rifugiati come hanno vissuto questo progetto?

Per loro questa opera rappresenta la riconquista della dignità. Durante il percorso, mi sono chiesto molte volte: Perché sto facendo questo?, senza avere una risposta chiara. Un giorno un rifugiato nigeriano di nome Isak che viene da una zona colpita da Boko Haram era con me in macchina e mentre stavo guidando mi ha detto: You know Yuval, I know why you are doing this. In quel momento ho fermato la macchina e gli ho chiesto: Really, please Isak, tell me why am I doing this. Lui mi ha risposto: You are doing this to tell them of our humanity. Era una risposta così semplice, così chiara.

Pensa che l’Europa e i media occidentali siano abbastanza attenti a questa problematica?

Innanzitutto Fuga Perpetua è un’opera d’arte che non lancia un messaggio politico. E’ un’esperienza artistica che trasmette un messaggio universale. Ma dal un punto di vista personale penso che esista un malessere globale che deve essere risolto. Il nostra pianeta è grande, gli spazi non mancano, né in Canada, né negli Stati Uniti, né in Italia, né in Francia. Il posto c’è. 

Qui parliamo di vita e di morte. In Europa si ripete spesso il termine “migrante”. Io sono un migrante, che è uscito dalla propria casa ed è andato volentieri in un’altra casa, in un altro paese. Ma “rifugiato” è un termine molto preciso, un termine che esprime dentro di sé lo stato legale di una persona che è andata via dalla propria casa perché la sua vita era in pericolo.

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Quale è il messaggio di Fuga Perpetua?

In questa opera non c’è la divisione tra noi e loro, non c’è la separazione, tutto è un noi. Questo è il vero messaggio di Fuga Perpetua

Dopo la prima assoluta di Modena quali saranno le prossime tappe?

Sarò al Brighton Festival, in Inghilterra, il 20 maggio e al Nottingham Lakeside Arts Center il 22 maggio. Poi tornerò in Italia.


Profilo dell'autore

Tatjana Đorđević Simic

Tatjana Đorđević Simic
Corrispondente dall'Italia per vari media della Serbia degli altri paesi dell'ex Jugoslavia, vive in Italia dal 2006 e da allora ha collaborato con molte riviste di geopolitica italiane e internazionali. Attualmente scrive per Al Jazeera Balkans e per la versione in serbo della BBC. È membro dell'International Federation of Journalist e dal marzo 2020 è il Consigliere Delegato dell'Associazione Stampa Estera Milano

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