Sono quasi le 12 di mattina (ore 11 italiane); il sole splende alto e batte forte su tutto il paese.
Nel villaggio si respira un’atmosfera tranquilla e pacata, c’è poca gente per strada: i più piccoli sono seduti sotto al chioscho, a bere un succo o a scherzare tra di loro giocando a lanciarsi pezzi di ramoscelli d’ulivo o piccoli sassolini; gli anziani invece siedono all’ombra in silenzio, il classico silenzio di chi ha visto molto, troppo, ma vuole comunque lasciare spazio alle nuove generazioni, vuole lasciare l’opportunità a chi è venuto dopo di lui di cimentarsi nel cambiamento della propria vita, nell’autodeterminazione del proprio futuro.
Il richiamo del muezzin dal minareto lascia però intendere che la gran parte degli abitanti è nella vicina moschea a pregare nel giorno santo dei musulmani. Passa un po’ di tempo, si intravedono anche degli internazionali, dei nordeuropei venuti a monitorare la situazione, a vedere la resistenza popolare di Kafr Qaddum.
Il paesaggio è molto semplice, due file di case e una strada che le divide, e su un muro si intravede un disegno: è un bambino, su una collina, che tiene in mano una bandiera palestinese da cui escono degli uccelli che rompono il filo spinato davanti a loro, e sotto una scritta: “We love our land; we will fight”.
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Ad un certo punto la tranquillità del villaggio si interrompe: si sentono risate, battiti di mani, il momento della preghiera è finito e un nutrito gruppo di gente sta per arrivare. Si intravedono i primi shebab, i ragazzi, gli adolescenti, l’avanguardia di ogni movimento; indossano le loro kuffiye in testa per coprirsi il volto e con sé hanno solo maschere antigas e fionde rudimentali. Dietro di loro i padri e gli zii e a scalare tutte le generazioni; i piccolissimi seguono i giovani, probabilmente i fratelli, cominciano ad imitarli nei gesti indossando le kuffiye e chiedendo ai più alti di prenderli in braccio, per farsi vedere da chi non è sceso in strada preferendo guardarli dalle finestre di casa, e anche gli anziani rompono il silenzio, mettendosi faticosamente in piedi aiutandosi l’un l’altro, perennemente con il rosario islamico in una mano e il bastone per appoggiarsi nell’altra, perennemente con l’occhio vigile; rimangono in ultima fila, quasi a voler creare un servizio d’ordine di veterani.
Ci siamo: il corteo sta per cominciare. Il concentramento è davanti casa di Murad, il coordinatore della lotta del villaggio, già punito con 10 mesi di detenzione amministrativa per “incitamento alla sommossa” e minacciato di altri 5 anni di prigionia per aver proseguito nello stesso reato; imbraccia il megafono e comincia a parlare alla popolazione: di fronte a lui quasi duecento persone, totalmente disarmate, con gli stendardi di al-Fatah, il partito maggioritario del villaggio, come unica arma. Parole dure e carismatiche, un discorso carico di ideali di giustizia e lotta per la terra, che si conclude con la frase “per ricordarci che noi apparteniamo alla Palestina e che la Palestina ci appartiene”, e al grido di “Allah è grande” il blocco di persone comincia la sua marcia.
Il corteo si prolunga lungo tutta la strada e non ha una grande pretesa: vuole semplicemente arrivare alla fine della stessa, un punto in cui le case cominciano a farsi più rade e disabitate, il pezzo di asfalto che unisce direttamente Kafr Qaddum alla colonia israeliana di Qedumim motivo principale del corteo di ogni venerdì, che reclama la riapertura della suddetta strada che un tempo collegava il villaggio alla vicina Nablus, ma che dopo l’arbitraria decisione dell’esercito israeliano, divide la municipalità con un muro di pietre e fango, costringendo di fatto gli abitanti a percorrere una strada di 30 km per poter arrivare nel punto in cui pochi anni prima ci si poteva arrivare in pochi minuti.
La marcia avanza, sotto il sole cocente, affiancata dalla colonna di fumo denso e nero degli pneumatici in fiamme accesi dagli anarchici israeliani che in questo modo intendono oscurare la visuale dei coloni e del probabile nemico che si cela al di là del muro; tutti prendono come punto di riferimento il gruppo di giornalisti con l’elmetto e il giubotto antiproiettile ma sopratutto l’avanguardia della prima fila, gli shebab che hanno cominciato a disperdersi nella vallata, tra gli alberi di ulivo e i muri delle case abbandonate, fermi nelle loro postazioni di vedetta: ad un certo punto un boato, e due colpi secchi, due spari.
La marcia si arresta, non si è arrivati neanche a metà della famosa strada che già ci si separa per lasciare spazio all’ambulanza della mezzaluna rossa che corre in direzione della colonna di fumo con il suono della sirena che significa una sola cosa: proiettili di piombo. Comincia la sassaiola degli shebab, che tentano di coprire l’operato dei soccorritori; ancora due spari. L’ambulanza retrocede frettolosamente e così anche il corteo, tutti verso la moschea, luogo in cui ci si accerta delle condizioni dei malcapitati, e da cui si diffonde la triste notizia: ad essere stati colpiti sono in due, un bambino di 12 anni colpito alla pancia e al ginocchio e il suo soccorritore colpito con un proiettile che gli ha attraversato la coscia da parte a parte.
Vengono trasportati d’urgenza al vicino ospedale, mentre il corteo ricomincia la sua “battaglia” nonviolenta che chiede null’altro che la riapertura della strada e l’eliminazione del blockroad. Qualcuno parla al megafono in direzione della collina, direttamente ai soldati appostati: è un israeliano che in ebraico ordina ai soldati di fermarsi, di rendersi conto di quello che hanno appena fatto, e che alzando le mani si piazza in zona scoperta, alla mercè dei cecchini, usando il proprio corpo come bersaglio e scudo; ma loro sanno chi colpire: il bambino era Khaled, il figlio di Murad, un bersaglio politico.
Gli internazionali, vistosamente non arabi, cercano di riprendere la vicenda mentre i giornalisti tornano indietro di corsa perchè timorosi che qualche proiettile possa raggiungere anche loro (la settimana prima un giornalista era stato colpito da un proiettile di gomma), perchè si sa che l’informazione è pericolosa.
Ancora spari e poi fumo bianco: i lacrimogeni cercano di disperdere il corteo ma gli shebab rilanciano al mittente le bombolette per poi tornare al sicuro a prendere del limone per contrarrestare gli effetti del fumo chimico. Si intravede la prima fila tornare indietro di corsa e si intuisce che i soldati hanno oltrepassato il muro divisorio, entrando nel villaggio arabo. La situazione non è ancora molto chiara: si sa che davanti la sassaiola prosegue contro qualcuno non ben definito; a sinistra ci sono due soldati sulla montagna, una vedetta e un cecchino; qualcuno mormora che stiano cercando di arrivare dall’immensa spianata di ulivi a destra, e quindi cerca di inoltrarsi nella campagna per avvistarli, ma nulla.
Solo le telecamere dei reporter professionisti riescono ad immortalare il reggimento che da dietro è pronto a scavalcare il rudimentale muro per raggiungere il cuore del villaggio, magari non solo con truppe di terra ma anche con jeep e camionette come fecero 2 anni pima; ma non succede nulla: le truppe sono convinte, a buon motivo, di aver interrotto il corteo colpendo un bersaglio non di poco conto, ma sbagliano. I cittadini, più motivati di prima, riprendono la propria marcia riuscendo ad arrivare molto vicino al muro ma, conoscendo la minaccia che li aspetta di lì a pochi metri, preferiscono alimentare la colonna di fumo, facendo arrivare pile di pneumatici da tutto il villaggio e le campagne circostanti; una scelta dalla dubbia eticità sicuramente, ma funzionale allo scopo: il vento è dalla loro parte e trascina tutto il fumo sulla colonia, i “settlers” sono accecati.
La settimana prima Murad, durante un’intervista, affermava: “La nostra battaglia non è solo per la nostra città; il problema di base, l’unico e solo problema, è l’occupazione Israeliana. I nostri atti sono puramente dimostrativi, ci muoviamo ogni settimana per far perdere tempo e soldi all’esercito perchè forse un giorno si stancheranno di tutto questo e capiranno le nostre ragioni, ma fino ad allora devono sapere che qui c’è della gente che non si arrende.”
Oggi è andata bene; poteva andare peggio: solo qualche mese prima, il proiettile di un cecchino, appostato su un tetto, aveva raggiunto una bambina che giocava nel salotto di casa propria, mentre adesso già si sa che i due feriti sono fuori pericolo di morte, anche se Khaled è stato trasferito perchè il proiettile ha intaccato l’osso e necessità di strutture specializzate o rischia di perdere la gamba.
Ad un popolo che domandava la semplice ripaertura di una strada, è stata data risposta armata; cosa succederebbe se qualcuno si azzardasse a reclamare le zone occupate? A chiedere indietro la terra dei padri?
Questo è semplicemente uno dei tanti venerdì di Kafr Qaddum, uno dei tanti venerdì di Hebron, B’lin o Betlemme, uno dei tanti venerdì in Palestina; questa volta è andata bene, la settimana prossima potrebbe andare peggio, ci potrebbero essere nuovi martiri, come ce ne sono ogni giorno; ma a Kafr Qaddum gli abitanti continueranno a rimanere lì, a reclamare la propria terra, perchè il loro motto è impresso nei loro cuori, ed è stato immortalato in quel disegno: “We love our land; we will fight”.