di Alessandro Pagano Dritto
(Twitter: @paganodritto)
(*Immagine di copertina: veicoli delle Nazioni Unite parcheggiati. Immagine di repertorio. Fonte: Getty Images)
Nonostante dopo la morte dei due ostaggi italiani nella zona di Sabratha la questione dell’intervento, anche di Roma, in Libia sia tornata in voga, ad un’attenta disamina le certezze su cosa si farà, come e quando non sono ancora molte. La sensazione è che l’attesa politica dovuta alle incertezze di Tobruk potrebbe tramutarsi all’esterno in una mancato coordinamento della coalizione nella lotta allo Stato Islamico.
Fausto Piano e Salvatore Failla, i due ostaggi italiani – di quattro totali – morti nella zona di Sabratha sono le vittime non libiche di una guerra locale allo Stato Islamico che, idealmente in atto anche prima dei bombardamenti statunitensi avvenuti in zona lo scorso 19 febbraio, dopo quei bombardamenti ha conosciuto un’intensità precedentemente ignota. La giornalista italiana Nancy Porsia, che ha potuto vedere coi suoi occhi il sito colpito, ha raccontato ad Antonella Palermo di Radio Vaticana, che l’ha intervistata, di «una reazione delle istituzioni locali all’agenda internazionale», di «connessioni che ci sono tra gli ambienti criminali e anche i gruppi affiliati allo Stato Islamico e pezzi delle istituzioni» che avrebbero impedito precedenti seri contrasti. «Sabratha è una cittadina di circa 70.000 abitanti a 80 km a ovest di Tripoli, quindi sono poche le famiglie che davvero contano nello spettro del potere locale» e, se ne deduce, i bombardamenti di Washington e l’attenzione internazionale hanno sconvolto questo equilibrio.
[Per approfondire: Cronache libiche, Rivelazioni e reticenze sui droni e sul bombardamento di Sabratha, 23 febbraio 2016]
Cosa definisce l’intervento internazionale: il punto 12 della Risoluzione 2259.
I fatti di Sabratha hanno riacceso l’interesse mediatico, almeno in Italia, per la Libia e recenti
dichiarazioni che sono comparse da voci statunitensi in questo rinnovato clamore hanno reso nuovamente attuali le domande e le aspettative circa un’intervento italiano nel paese nordafricano.
In realtà dietro la parola «intervento» non c’è ad oggi molto di chiaro. L’unica chiarezza in merito, chiarezza documentaria, è data dal testo della Risoluzione 2259 delle Nazioni Unite, adottato lo scorso 23 dicembre, che al punto 12 recita: «[Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite] spinge tutti gli Stati membri ad assistere prontamente il Governo di Accordo Nazionale nel rispondere alle minacce alla sicurezza libica e supportare attivamente il nuovo governo nella sconfitta dello Stato Islamico, dei gruppi che hanno tributato alleanza allo Stato Islamico, Ansar al Sharia e tutti gli altri individui, gruppi, associazioni ed entità associati ad al Qaeda che operano in Libia, su sua richiesta».
Il Governo di Accordo Nazionale qui menzionato è stato previsto dagli accordi siglati tra delegazioni di Tripoli e Tobruk – per altro le prime sconfessate dal loro stesso parlamento – il 17 dicembre 2015 nella cittadina marocchina di Skhirat: al momento questo governo non esiste, perché il parlamento internazionalmente riconosciuto di Tobruk non lo ha ancora approvato. Esiste al suo posto, come previsto dagli accordi stessi, un Consiglio Presidenziale il cui presidente, l’ex deputato di Tobruk Fayez Serraj, è anche il deputato Primo Ministro del governo unitario ed è stato nominato in questi ruoli dalle stesse Nazioni Unite.
La Risoluzione 2259 stabilisce però che la comunità internazionale intervenga in Libia proprio su richiesta di questa entità governativa ancora inesistente.
Sulla carta dunque, nessuno può muoversi anche se la coalizione può elaborare i piani che preferisce perché la Risoluzione di dicembre in alcun modo li definisce.
Chi conduce l’intervento internazionale: la coalizione.
Non esiste al momento un documento ufficiale che definisca i partecipanti all’intervento internazionale in Libia, i loro ruoli e la strategia complessiva. Da più parti si è detto che l’Italia avrà in questo intervento un ruolo guida, il che autorizza a dare un certo peso alle dichiarazioni che provengono in merito da Roma: recentemente la Ministra della Difesa italiana Roberta Pinotti ha allora confermato che la coalizione che agirà in Libia su richiesta del futuro governo unitario sarà composta di 19 Stati. Non si conosce esattamente il nome di tutti questi Stati, ma chi segue le vicende libiche può comporre un elenco abbastanza preciso di tutte quelle potenze che di sicuro sono state coinvolte in un qualche livello negli ultimi due anni di storia del paese nordafricano: Algeria, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Giordania, Italia, Marocco, Qatar, Regno Unito, Stati Uniti, Tunisia, Turchia potrebbero costituire un elenco di massima soddisfacente.
Che questa coalizione sia ancora poco più che un elenco teorico lo confermerebbe un tweet del sottosegretario alla Difesa Domenico Rossi, che il 2 marzo ha smentito le voci ricorrenti sulla presenza a Roma di una stazione di coordinamento dei movimenti militari per la Libia.
Sulla #Libia ribadisco la coerenza del governo, attendiamo la formazione del governo libico, ma non c’è nessuna war room
— Domenico Rossi (@DomenicoRossi51) 2 marzo 2016
In cosa consiste l’intervento internazionale: le mosse ufficiali intraprese fino ad ora.
Diversa questione è dire cosa ciascuno degli Stati sopra citati darà alla coalizione, ammesso e non
concesso che l’elenco sia esattamente questo. L’ambasciatore statunitense in Italia John Phillips, recentemente intervistato dal Corriere della Sera, ha parlato per il suo paese di un contributo di intelligence, il Regno Unito ha per ora inviato elementi di rinforzo al confine orientale tunisino per fronteggiare con le forze locali il passaggio illegale di miliziani dello Stato Islamico, la Germania si è offerta di addestrare truppe libiche in Tunisia.
Per ora quindi le uniche mosse ufficiali parlano di un contenimento dello Stato Islamico soprattutto a vantaggio o con la collaborazione della Tunisia. Non sono però mosse da attribuire alla coalizione, ma a singoli probabili elementi della stessa. Nulla di richiesto dal Consiglio Presidenziale libico e nulla da far rientrare nell’ambito dell’intervento descritto dalla Risoluzione 2259. Lo stesso discorso vale per i raid statunitensi sul suolo libico, tre tra il 2015 e il 2016, che lo stesso Dipartimento della Difesa si è premurato di descrivere come operazioni mirate alla difesa degli interessi strategici di Washington o dei suoi alleati nell’area mediterranea.
In questo scenario rientra, per altro, la questione recentemente venuta alla luce dopo un articolo del Wall Street Journal, della concessione della base italiana di Sigonella per la partenza dei droni americani e il confermato supporto conferito da una ufficialmente non meglio precisata base del Regno Unito al raid di febbraio su Sabratha.
In cosa consisterebbe l’intervento internazionale: le mosse ufficiose descritte dalla stampa e negate dai governi.
Una serie di altre mosse ufficiose è stata descritta dalla stampa di alcuni dei paesi che parrebbero coinvolti nella coalizione, i quali però hanno puntualmente negato la veridicità di queste ricostruzioni: secondo il Telegraph forze speciali britanniche agirebbero nella città libica di Misurata assieme ad analoghe forze statunitensi, secondo Le Monde la Francia sarebbe attiva nello scenario di guerra di Bengasi al fianco delle truppe del Generale Khalifa Hafter, secondo il Corriere della Sera un decreto segreto del Primo Ministro Matteo Renzi autorizzerebbe reparti speciali delle forze armate ad agire in Libia sotto la direzione dell’intelligence dell’Agenzia Informazioni Sicurezza Esterna (AISE). La reazione di Londra, Parigi e Roma, si diceva, è stata unanime e bastino allora per tutti le parole del Capo di Stato Maggiore italiano Generale Claudio Graziano che si è dichiarato «assolutamente sorpreso per le ricostruzioni giornalistiche che continuano ad imperversare» e ha evocato invece «la linea di prudenza del governo, espressa più volte dal Ministro Pinotti».
In effetti la Ministra Pinotti ha scongiurato azioni solitarie di singoli paesi e aveva invece chiarito come vi fosse sulla questione libica concordia d’azione e rispetto intrinseco per il ruolo italiano.
Le parole del Generale Graziano combaciano con quelle, recentissime, del Primo Ministro italiano Matteo Renzi, che ha scritto sul proprio sito personale: «I media si affannano a immaginare scenari di guerra italiana in Libia che non corrispondono alla realtà. La situazione in Libia infatti è sempre molto delicata. Il lavoro delle Nazioni Unite per raggiungere un accordo solido e stabile sul governo è ancora in pieno svolgimento. Abbiamo bisogno di una soluzione equilibrata e duratura. Solo a quel punto potremo valutare – sulla base della richiesta di un governo legittimato – un impegno italiano, che comunque avrebbe necessità di tutti i passaggi parlamentari e istituzionali necessari. Dunque questo non è il tempo delle forzature, ma della prudenza, dell’equilibrio e del buon senso».
Intervistato da Gerardo Pelosi del Sole 24 Ore, il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha sostenuto che «il tempo stringe, ma non c’è alle porte nessuna guerra lampo. […] È un’operazione politica prima che militare […]».
In cosa consiste l’intervento internazionale: diverse fasi?
Non esistendo dunque da nessuna parte un piano dettagliato ufficiale, tutto ciò di cui si parla deriva da indiscrezioni stampa. Se si accorda per vero ciò che dicono in questi giorni Telegraph, Monde e Corriere della Sera – al quale va aggiunto per completezza almeno un significativo articolo della Stampa a firma di Francesco Semprini con la collaborazione dell’ex ufficiale paracadutista della Folgore e attuale direttore generale della Security Consulting Group Carlo Biffani – quella alla quale si starebbe assistendo adesso sarebbe l’operazione di invio in terra libica di forze speciali con lo scopo di coordinarsi con i diversi miliziani presenti nel terreno e condurre con loro, probabilmente soprattutto addestrandoli più che combattendo in prima linea, la lotta allo Stato Islamico e alle altre formazioni terroristiche presenti in Libia.
Una volta che queste piccole unità fossero ben assestate sul terreno, si potrebbe pensare all’invio di contingenti più grandi, ma ancora una volta finalizzati più alla difesa delle installazioni petrolifere e amministrative che alla lotta in prima linea contro lo Stato Islamico; lotta che rimarrebbe in prima istanza nelle mani dei libici come attualmente è già. Secondo l’ANSA questo sarebbe stato deciso o confermato nella seduta del Consiglio Supremo della Difesa dello scorso 25 febbraio, dopo la quale la Ministra della Difesa Pinotti aveva comunque espresso la necessità di rapportarsi con le forze libiche sul campo. Qualche tempo fa giravano voci di un contingente misto italiano e britannico di 5000 elementi, ora il Corriere della Sera scrive di 3000 unità italiane mentre l’ambasciatore statunitense a Roma attribuisce alla penisola una capacità ancora una volta di 5000 uomini. Tutto questo sarebbe comunque una seconda fase nella quale si risponderebbe probabilmente a una chiamata libica.
Quando si farà l’intervento internazionale: la questione della chiamata libica.
Come si è visto, la chiamata libica è prevista dalla stessa Risoluzione 2259 delle Nazioni Unite. Ma
ad oggi i segnali che questa chiamata avverrà sul serio non sono molti.
Innanzi tutto, come si è detto, il governo unitario che dovrebbe inoltrare questa chiamata è ancora da venire ed è possibile pensare che il suo comportamento dipenderà molto dalla sua stessa composizione. Attualmente è in corso in Libia un acceso dibattito sull’opportunità della presenza del Generale Khalifa Hafter nelle maglie del Governo di Accordo Nazionale, come Ministro della Difesa o magari come Capo di Stato Maggiore, ed è proprio questo punto che sta bloccando l’approvazione del governo stesso ma anche il suo secondo, esplicito, rifiuto. Hafter non è mai stato un acceso unionista e fino ad ora si è sempre espresso per l’invio di armi più che per un aiuto di altro tipo direttamente sul suolo libico: invio che fino ad ora gli è stato vietato proprio dall’embargo stabilito dalle Nazioni Unite.
All’interno del Consiglio Presidenziale, che per il momento non ha mai incluso Hafter nelle due proposte di governo ma che è diviso anche al suo interno sulla questione, anche coloro che provengono da Tripoli e che quindi sono sicuramente ostili al Generale hanno espresso la loro perplessità sulla questione della presenza straniera nel paese, sebbene alleata: si leggano in questo senso le esplicite dichiarazioni rilasciate qualche settimana fa dal tripolino Ahmed Maitig al Telegraph.
La possibilità concreta, dunque, è che tanto gli hafteriani quanto gli antihafteriani, tanto gli unionisti quanto i non unionisti, siano quanto meno perplessi nell’accettare la presenza non libica nel territorio libico.
Le critiche rivolte alla strategia dell’approccio ai singoli gruppi.
Al momento appaiono quindi assodati alcuni punti: che esiste una strategia ufficiosa dove ognuno invia sostegno logistico, sotto forma di forze speciali, a gruppi diversi; che questa forma di supporto potrebbe non essere accettata dal governo unitario quando questo vedrà la luce; che comunque nessuno ammette esplicitamente questi supporti e che invece, ufficialmente, le uniche manovre riconosciute sono episodici contrasti allo Stato Islamico sul modello statunitense e a supporto di paesi vicini alla Libia, in particolare la Tunisia; che ben poche certezze si hanno sulla coalizione autorizzata dalle Nazioni Unite e sui suoi piani di intervento.
Esperti di cose libiche come Mattia Toaldo o Frederic Wehrey hanno scongiurato questo tipo di operazioni, paventando che il risultato vero non sia un successo nella lotta allo Stato Islamico, ma il rinfocolamento della guerra civile che le Nazioni Unite e gli accordi di Skhirat hanno cercato di concludere. Toaldo sottolinea il rischio prendendo a prestito l’immagine efficace dei «curdi di Libia»: di uno scenario in cui, cioè, ogni milizia libica cerchi di giocare, agli occhi delle potenze straniere, il ruolo del gruppo di riferimento nella lotta alle formazioni nere, assumendo dunque lo stesso ruolo assunto dalle milizie curde in Iraq. In realtà, chiarisce Wehrey, in mancanza di un’efficace prospettiva unitaria, ogni milizia potrebbe nascondere nella lotta al terrorismo una strategia per il proprio rafforzamento personale utilizzato per fini diversi e cioè per combattere i propri nemici interni. Per questo, dice sempre l’esperto, le potenze straniere dovrebbero assicurarsi di avere una condotta comune e di favorire solo quei gruppi armati disposti ad appoggiare il governo unitario e, soprattutto, a confluire in un esercito unitario e combattere fianco a fianco col proprio vecchio nemico interno dei tempi della divisione tra Tripoli e Tobruk contro il nuovo nemico rappresentato dallo Stato Islamico.
Conclusioni
L’ambiguo punto 12 della Risoluzione 2259 delle Nazioni Unite lascia, sì, alla coalizione la massima libertà di concordare e adattare il proprio intervento, ma ha l’effetto negativo di non imporre una condotta cui attenersi: condotta che, nei tempi lunghi dell’attesa di una fiducia politica per il governo unitario che a Tobruk stenta a concretizzarsi, sembra quindi potersi sfaldare in diverse azioni singole prima ancora di prendere una forma ufficiale e pubblica anche solo teorica.
Il problema, infatti, non sono da questo punto di vista le forze speciali in sé, che potrebbero anche risultare necessarie in vista di successive, più ampie, operazioni di difesa di obiettivi strategici; quanto piuttosto la mancanza di una retorica condivisa dalle potenze interessate che rassicuri sulla volontà comune e sul coordinamento di questi invii a Misurata, a Tripoli, piuttosto che a Bengasi: ognuno nega e però, presumibilmente, ognuno fa negando di fare. Ufficialmente, per esempio, l’Italia scongiura questo sfaldamento in un rivolo di iniziative indipendenti, ma indiscrezioni stampa non la ritraggono in modo poi tanto diverso dalle altre potenze interessate.
Nel frattempo i critici delle azioni non coordinate denunciano un rischio di frammentazione di un panorama già abbastanza frammentato e l’unica speranza sembra riporsi nel buon senso degli attori libici non interessati a combattersi tra loro con la scusa del contrasto allo Stato Islamico.
Profilo dell'autore
- Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.
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