di Bartolomeo Bellanova
Shaimaa al-Sabbagh, 32 anni, era un’attivista per i diritti dei lavoratori e militante del Partito dell’alleanza popolare socialista. Sabato 9 maggio 2015 si è svolta la prima udienza per l’uccisione di Shaimaa, colpita a morte il 24 gennaio 2015 dalle forze di sicurezza durante una manifestazione per ricordare le centinaia di “martiri della rivoluzione del 25 gennaio”, che nel 2011 spodestò Hosni Mubarak.
Shaimaa al-Sabbagh, insieme a una trentina di persone, stava prendendo parte alla manifestazione indetta dal Partito dell’alleanza popolare socialista. Camminavano sul marciapiede per non ostruire la circolazione stradale, dirette a piazza Tahrir: alcune reggevano lo striscione del partito, altre avevano in mano cartelloni e fiori.
Le forze di sicurezza che presidiavano gli ingressi di piazza Tahrir bloccarono i manifestanti in via Talaat Harb e, senza preavviso, iniziarono a lanciare lacrimogeni e a sparare coi fucili da caccia o con pallottole di gomma secondo altre fonti.
“Il marito, Osama, a fianco a lei, trasportò in braccio il suo corpo insanguinato conducendolo al riparo, dietro al caffè Bustan, mentre Bilal, il loro figlio di cinque anni, piangeva”, così raccontò l’amica e attivista Reem Gamal che assistette alla scena. «In ospedale, per dare l’autorizzazione per la sepoltura, hanno chiesto ai familiari di dire che si è trattato di suicidio», ha aggiunto la giovane attivista.
Shaimaa, secondo quanto dichiarato dal direttore dell’Ufficio di medicina legale, venne colpita dai pallini da caccia alla schiena e alla testa, da una distanza di otto metri. Inizialmente il governo negò ogni responsabilità. In seguito, un agente delle forze di sicurezza fu incriminato per “percosse, ferite o uso di sostanze dannose che provocano la morte”.
Alla sbarra non sono mai stati portati i mandanti, i funzionari dello stato coinvolti nella morte di Shaimaa ma 17 testimoni oculari.
Tra i 17 imputati c’era Azza Soliman, fondatrice del Centro di assistenza legale alle donne. Il 24 gennaio era in un bar insieme a familiari e amici. Quando la manifestazione passò davanti al locale, lei uscì per andare a vedere. E ciò che vide (le forze di sicurezza lanciare gas lacrimogeni e sparare ad altezza d’uomo, un corpo a terra) lo volle riferire ai giudici. Un secondo imputato era il medico che per primo soccorse Shaimaa.
Difensori dei diritti umani, semplici passanti, un medico, manifestanti di sinistra. Ciò che li accomuna è che hanno voluto denunciare alla magistratura cosa avevano visto. Uno di loro, quando si presentò a testimoniare, si vide addirittura accusare della morte di Shaimaa al-Sabbagh. La ridicola accusa fu poi ritirata.
I 17 imputati – testimoni dovettero rispondere di “manifestazione non autorizzata” rischiando fino a cinque anni di carcere.
In realtà dal momento della morte di Shaimaa, i media egiziani iniziarono a dare una versione completamente insensata sulle circostanze della sua fine, puntando il dito addirittura contro i suoi compagni di partito. Soltanto sul quotidiano filo-governativo al-Ahram si levò una voce critica contro la polizia dell’editorialista Ahmed Sayed al-Naggar. «È assurdo. Le autorità egiziane tentano costantemente di discolpare la polizia», ha commentato. Anche il Segretario del partito socialista, Talaat Fahmy è stato picchiato dalla polizia durante la sparatoria. Sei sono i feriti in seguito agli scontri, costati la vita a Shaimaa.
Sempre dalla parte dei lavoratori delle fabbriche di Alessandria», è il ricordo di Shaimaa dell’attivista per i diritti dei lavoratori, Mahiennur el-Masry, più volte in prigione per il suo attivismo al fianco degli operai. «Prima delle rivolte del 2011, Shaimaa era un’attivista di sinistra senza un’affiliazione precisa. Durante le contestazioni di piazza Tahrir ha iniziato a fare politica con l’Alleanza socialista. Era una delle donne più sincere e impegnate per la difesa dei diritti dei lavoratori che io conosca, partecipava a scioperi e sit-in nelle fabbriche di Alessandria ed era un membro dell’ufficio permanente dei lavoratori che raggruppa sindacalisti, attivisti e operai», ci racconta commossa Mahiennur.
Per Moataz Elshennawy, portavoce del partito dell’Alleanza socialista, si è trattato di un «assassinio premeditato» a opera della polizia. Moataz ha anche aggiunto che la manifestazione non era stata autorizzata (in base alla legge anti-proteste è impossibile ottenere autorizzazioni in tempi utili per manifestare) ma era stata annunciata in anticipo. La morte di Shaimaa conferma una volta di più quanto la repressione non colpisca solo i movimenti islamisti ma anche i partiti laici, di sinistra e i movimenti giovanili.
Per le strade del Cairo è subito apparso un murales in memoria della grande rivoluzionaria operaia che era Shaimaa. Si vede la giovane che stringe tra le mani un manifesto a sostegno di poveri ed indifesi, come era solito vederla alle porte di fabbriche o durante gli scioperi a cui prendeva parte. I funerali di Shaimaa ad Alessandria si sono trasformati in una grande manifestazione degli attivisti socialisti e di sinistra contro il regime di al-Sisi. Centinaia di compagni gridavano canti contro la polizia e innalzavano cartelli con la sua foto.
Lo svolgimento del processo portò alla condanna a 15 anni di reclusione all’agente di polizia Yassin Hatem Salah Eddin riconosciuto colpevole della morte di Shaimaa.
In 14 febbraio 2016 la sentenza di condanna è stata annullata dal giudice di Cassazione Taha Qassim, che ha ordinato un nuovo processo a carico dell’agente di polizia. Un pronunciamento, quello del giudice Qassim, in linea con i proscioglimenti e le sentenze sospese riguardanti decine di altri agenti di polizia finiti alla sbarra in relazione alle uccisioni dei circa 900 manifestanti morti nei 18 giorni della rivolta di piazza che portò nel 2011 alla fine del regime di Hosni Mubarak. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, accusato di imbavagliare gli oppositori, aveva risposto all’ira sollevatasi per la morte di Shaimaa el-Sabbagh riferendosi a lei come “mia figlia” e “figlia dell’Egitto” e promettendo che i responsabili della sua morte sarebbero stati portati davanti alla giustizia. Al processo, l’avvocato difensore del’agente, Farid El-Deeb, aveva sostenuto che la manifestazione in cui Shaimaa trovò la morte era avvenuta in violazione di una legge del 2013 che bandiva ogni dimostrazione di strada e che le circostanze in cui si era svolta, le celebrazioni della caduta di Mubarak, avevano indotto in confusione gli agenti assegnati al mantenimento dell’ordine pubblico.
Shaimaa era una ragazza dalla vita assolutamente normale per i suoi gesti quotidiani che sono anche i nostri, non pensava minimamente al martirio, la passione scorreva in lei. Era uscita quel maledetto sabato 24 gennaio con tutta la sua famiglia e con rose rosse da portare in piazza, armata di fiori non di esplosivo. Mi piace immaginare che dopo la manifestazione avrebbe fatto la spesa al mercato, avrebbe baciato il suo uomo e accarezzato il suo bambino. Poi quella fine improvvisa e bastarda con Osama che inginocchiato le cinge la vita quasi a trattenerle l’anima che sta per evaporare da quel volto già insanguinato e con lo sguardo perso. È penetrante e vero il volto di lui che implora pietà alla morte che ha ghermito la sua compagna all’improvviso facendo esplodere nel nulla i loro sogni e le loro speranze. Le sue mani che le cingono la vita consegnano al corpo di lei un ultimo disperato contatto d’amore.
Shaimaa muore ancora in silenzio come quel sabato quando sotterriamo le parole “partecipazione” e “militanza” sotto a cumuli di paure, indifferenza, ignavia, accomodamento col potere, ogni volta che non vogliamo vedere e non vogliamo denunciare. Scriveva poesie, come molti animi sensibili affidano ai versi le loro emozioni e le loro passioni più profonde. Qui ne trovate alcune.
Questo articolo è tratto dal secondo numero de La macchina sognante, una rivista di scritture dal mondo. Ogni settimana Frontiere News pubblica un saggio a cura della rivista.
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