“Così il sionismo ha assassinato l’ebraismo”

Nel 1968 l’antropologo e scrittore Jeff Halper ha frequentato un’università teologica per diventare rabbino. Ma la sua idea di religione – intrisa di ideali di giustizia sociale ed equità – si è scontrata con il mito dell’intoccabilità di Israele e del sionismo. 

Jeff Halper, statunitense di origini ebraiche e residente a Gerusalemme, è un antropologo, scrittore, oratore, attivista politico e co-fondatore e Coordinatore del Comitato israeliano contro la demolizione delle case (ICAHD). Halper è stato candidato per il Premio Nobel per la pace per il suo lavoro “per liberare sia i palestinesi che il popolo israeliano dal giogo della violenza strutturale” e “per costruire l’uguaglianza tra le persone riconoscendo e valorizzando la loro comune umanità”.

Da ragazzo ho studiato all’Hebrew Union College per diventare un rabbino riformato, un anno a Cincinnati (era il 1968) e un altro, quello successivo, a Gerusalemme.

Sono stato il classico militante sessantottino, attivo nei movimenti per i diritti civili e contro la guerra in Vietnam. Negli anni ’60 si sono plasmate però anche delle identità politiche particolari, che io mi trovo oggi a definire problematiche e che molti tendono a dimenticare.

In quel periodo Alex Haley ha scritto Radici. Le comunità afro-americane, ispaniche e nativo-americane hanno cominciato proprio in quegli anni a rivendicare le proprie identità etnico-nazionali. E io mi sono trovato in mezzo a tutto ciò.

Dopo il mio bachelor degree ho frequentato l’Hebrew Union College per rafforzare il mio legame con le mie radici ebraiche. Ho però trovato qualcosa di diverso: una scuola professionale per figli di papà con il sogno di diventare rabbini per guadagnare soldi facili, qualcosa di intrinsecamente anti-intellettuale. I miei colleghi dell’epoca oggi sono diventati degli affermati rabbini; sporadicamente ci incontriamo per pranzare insieme, ma non mi farebbero mai parlare nelle loro sinagoghe.

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Tornato a Cincinnati dopo tutti questi anni, mi hanno invitato a parlare ad alcune persone della comunità ebraica locale, a casa del mio vecchio tutor all’epoca dell’Hebrew Union College. Una riunione informale, si intende, la comunità ebraica “istituzionale” non mi avrebbe mai invitato. Poi, e la cosa mi ha sorpreso, sono stato invitato dal preside dell’Hebrew Union College per fare un giro nel campus.

Apprezzo la volontà di passare del tempo con me, ma ho trovato fastidiose entrambe le conversazioni. Ho sempre inteso l’ebraismo come un interesse verso la giustizia sociale, come una tradizione intellettuale di critica. Ma persino questi ebrei liberali e istruiti – critici su altri aspetti – si sono rifiutati di vedere Israele in modo critico. Come se gli eccessi di Israele – la deportazione, la colonizzazione, l’occupazione e la repressione del popolo palestinese – definissero la loro ebraicità più delle tradizioni della Diaspora e dell’esperienza della sofferenza.

Sotto molti aspetti sento che il sionismo abbia davvero assassinato l’ebraismo. L’Hebrew Union College ha rappresentato un tentativo fallito di riconnettermi con le mie radici ebraiche, mentre Israele rappresenta un ebraismo di stato, violento e trionfale, che ha tentato di sgretolare tutto ciò che di buono e morale si è sviluppato nell’ebraismo della diaspora.


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Durante il mio periodo a Cincinnati, in quanto studente di teologia, mi è stato offerto un differimento nell’arruolamento nell’esercito americano durante la Guerra del Vietnam: mi sarei dovuto unire all’esercito in qualità di capo spirituale, una volta ordinato. Potete immaginare una cosa del genere? Ma considerato il mio lungo attivismo anti-militarista, ho deciso di rifiutare il rinvio e ho dichiarato di non volermi affatto arruolare. Avrei quindi spinto la commissione di leva a richiamarmi, io mi sarei nuovamente rifiutato per poi essere chiuso in galera.

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Mi sono quindi alzato sul pulpito della sinagoga dell’Hebrew Union College, ho letto ad alta voce un comunicato di opposizione alla guerra proclamando il mio dovere (come ebreo e come essere umano) di rifiutare il rinvio offertomi e, accompagnato da molti miei docenti e colleghi, ho camminato fino alla cassetta della posta per inviare la mia replica. Essendo il primo studente rabbinico a fare un atto simile (soltanto un altro studente del Jewish Theological Institute di NY ha seguito l’esempio), ho attirato l’attenzione nazionale.

Quasi per caso il giornale locale Enquirer ha scritto un articolo su di me appena sono arrivato a Cincinnati, accompagnando il testo da una mia immagine con i capelli lunghi. Il giornale locale di Hibbing, nel Minnesota, ha ripreso l’articolo e l’ha pubblicato in prima pagina, immagine inclusa. Purtroppo, in ogni senso, un ragazzo di Hibbing era stato appena ucciso in Vietnam e quella storia – così come l’immagine del suo volto pulito in uniforme militare – è apparsa accanto alla mia.

I miei genitori hanno subito delle minacce, ma nonostante questo sono stati al mio fianco (o qualcosa del genere). Mi sono presentato davanti alla commissione di leva, pronto per essere spedito in prigione. Ma poi è successa una cosa provvidenziale: la Corte Suprema aveva appena emesso una sentenza su un caso analogo in cui veniva proibito di rinunciare al differimento. Essendo ancora uno studente dell’Hebrew Union College, il rinvio era valido nonostante volessi rinunciarci. Forse non ero ancora pronto a lasciar l’Hebrew Union College, ma non mi ero iscritto con l’idea di potermi esimere dalla leva. Sono quindi scappato, pagando il prezzo delle mie azioni. Sono sempre stato grato di aver preso una posizione; se avessi aspettato la sentenza della Corte Suprema per farlo, non avrei mai saputo se avessi davvero il coraggio di resistere.

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