di Haji Jaber
“L’Eritrea non ha bisogno della democrazia importata dall’Occidente, ma è capace di creare un suo modello di democrazia”. Questa era la risposta che aveva sempre ribattuto il presidente Isaias Afewerki, per ben due decenni, alla domanda sulla democrazia in Eritrea. Ultimamente però Afewerki ha dato una risposta diretta e ben diversa, che i suoi avversari politici hanno considerato la più sincera per la descrizione del suo governo sin dal 1991. Afewrki ha dichiarato, in un’intervista alla televisione di Stato, che “chi aspetta o si illude che ci sarà la democrazia in questo paese, sta vivendo sicuramente in un altro pianeta”.
Ma gli eritrei hanno veramente bisogno di sentire ciò dal presidente che sta a capo dell’unico partito nel paese, e che – per ironia della sorte – si chiama “Il Fronte Popolare della Democrazia e della Giustizia”, per capire che i loro sogni d’indipendenza dopo la guerra con l’Etiopia, sono entrati in un tunnel oscuro? La questione era già chiara per gli eritrei, per questo non è emersa nessuna novità nell’ultima dichiarazione di Afewerki.
La vera domanda però è: perché Afewerki ha dichiarato in modo netto la sua visione politica nel dirigere il paese, dopo aver cercato sempre di celarla sotto le spoglie di discorsi non lontani dall’idea di democrazia?
I sogni dell’indipendenza
Dal primo giorno in cui “Il Fronte Popolare della Democrazia e della Giustizia” aveva avuto il controllo sull’Eritrea – cacciando “Il Fronte di Liberazione Eritreo” nel Sudan, nonostante questi avesse iniziato per primo la lotta contro l’Etiopia – il partito dominante aveva due progetti: il primo era gonfio di promesse di porre fine agli anni di lotta con la realizzazione dei sogni di libertà, di democrazia e di vita dignitosa. Il secondo progetto invece era celato, portato avanti da una limitata categoria del popolo.
Nella prima festa d’indipendenza il partito dominante aveva parlato a lungo di formare un parlamento e una costituzione, e di permettere il pluripartitismo, della libertà d’espressione e della libertà di credo. E ciò è stato dimostrato con i permessi dati a un gran numero di quotidiani, e nel dare a loro un maggior margine di libertà. Con il passare del tempo però il primo progetto andava ristretto a favore del secondo
Il primo passo
L’Eritrea non ha goduto della cosiddetta “primavera eritrea” tra 1992 – 1996, in cui si erano diffusi i quotidiani e le riviste, e si era verificato il ritorno della élite alla politica e alla cultura, per ricostruire l’Eritrea dopo l’indipendenza. Il partito dominante si seccò subito delle critiche dei giornali, allora li chiuse e iniziò una campagna di arresti, indirizzata soprattutto a coloro che gridavano “a squarciagola” criticando l’atteggiamento totalitario del governo nel dirigere lo stato. Ciò arrivò prima della guerra con l’Etiopia del 1998, che fu il passo decisivo verso l’oppressione e la violenza del regime.
Finì la guerra dopo aver mietuto decine di migliaia di morti, e aver condannato all’esilio altre migliaia. Ma la fine della guerra non era altro che l’inizio della rivelazione della vera faccia del regime; il rigido atteggiamento nei confronti di chi si dimostra contrario alla propria politica, e sarebbe stato questo il metodo che avrebbe seguito “Il Fronte Popolare della Democrazia e della Giustizia” negli anni successivi. La patria, secondo il partito dominante, avrebbe accolto soltanto “i buoni cittadini” che dovevano per forza appartenere al partito, al di fuori di questa categoria ci stavano “i traditori” che dovevano essere sterminati e cacciati via.
Unico partito, unico giornale e unica TV
La seconda guerra con l’Etiopia scoppiò nel 2000. Tra le due guerre Isaias Afewerki ordinò di arrestare decine di ministri, di membri del partito e di intellettuali e giornalisti che avevano richiesto al regime di mantenere le promesse per la democrazia nel paese. Alcuni di loro, ancora viventi, risiedono tuttora nelle carceri.
Intanto non restò nel paese che una sola TV, un solo giornale e una sola radio che rappresentavano il regime. La costituzione venne sospesa e il parlamento sciolto. Tutto ciò che succedeva il regime lo giustificava con lo stato di emergenza creato dalla guerra con l’Etiopia, e con il pretesto della sicurezza nazionale. I documenti di “WikiLeaks”, però, affermavano che la causa della guerra tra l’Eritrea e l’Etiopia era dovuta a uno scontro personale tra Afewerki e l’ex primo ministro etiope Meles Zenawi.
I campi profughi
Oggigiorno quasi mezzo milione di profughi eritrei vivono sui confini del loro paese, a Est del Sudan, in uno stato misero, dopo che l’ONU ha negato loro il diritto d’asilo. L’organizzazione dunque non è più responsabile del loro sostegno, poiché gli eritrei appartengono a un paese che gli permette il ritorno, anche se, la realtà dei fatti non è così. Il regime ha posto degli ostacoli davanti agli eritrei esiliati, per mantenere la strategia demografica che ha messo in atto dopo l’indipendenza. Infatti, chi rientra in paese non può più stare nella città dove viveva prima, ma viene mandato in un’altra più lontana. Se insiste nel restare nella sua città viene privato dei diritti fondamentali fino a costringerlo ad abbandonare, volontariamente, il paese. Così la maggior parte di coloro che erano tornati in patria sono ritornati nuovamente nei campi profughi del Sudan.
Il paese dei contrasti
Ci sono diverse divisioni in Eritrea, e sono molto importanti per capire la realtà culturale del paese. Ci sono musulmani e cristiani, arabi e abissini, i popoli delle alture e quelli delle pianure, filo sudanesi e filo etiopi. E nonostante ci siano nove etnie, di fatto però le divisioni principali sono sempre una di quelle suddette categorie. La lingua araba è una lingua ufficiale, insieme al tigrino (la lingua della piccola etnia di Afewerki che risiede nelle alture), e i musulmani sono il 75% della popolazione eritrea, la maggior parte di loro risiedono nelle pianure. Nonostante tutto ciò l’arabo subisce una chiara marginalizzazione dal regime. Vediamo che il tigrino è la lingua dei media e delle pratiche statali, e chiunque parli solo l’arabo ha bisogno di un interprete tigrino per svolgere le più semplici pratiche. E siccome la maggior parte delle guerre ha avuto come teatro le pianure, i popoli delle pianure sono stati costretti a migrare e ad abbandonare le loro case e le loro terre, cosicché il regime ha cominciato la sua campagna demografica che ha cambiato la sorte del paese. I terreni fertili e le case delle pianure sono state concesse a coloro che venivano dalle alture, così Massaua, la città situata sul Mar Rosso che prima parlava soltanto l’arabo, oggi è diventata una città in cui si parla soltanto il tigrino.
(traduzione a cura di Gassid Mohammed)
L’articolo completo può essere letto su La macchina sognante, una rivista di scritture dal mondo. Ogni settimana Frontiere News pubblica un saggio selezionato dalla redazione de La macchina sognante.
Haji Jaber è uno scrittore eritreo, scrive in lingua araba. Nato nel 1976 a Massaua, in Eritrea, ma cresciuto in Arabia Saudita. È uno degli intellettuali più importanti della diaspora eritrea nel mondo arabo. Scrittore e giornalista attivo, ha lavorato per anni nel giornalismo saudita, e ha lavorato come corrispondente per la TV tedesca Deutsche Welle in Arabia Saudita, e attualmente vive a Doha, in Qatar, e lavora come giornalista per Al Jazira TV. Ha sempre lottato per la causa della sua patria tramite l’arte della scrittura, senza trascurare minimamente la letteratura araba e mondiale, cui dedica la maggior parte dei suoi articoli sui giornali.
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Grazie per la tua testimonianza, Terry.
Ho vissuto 4 anni in Ethiopia responsabile di due progetti ONG in Sashamanne e Mendida quando regnava Mengistu e ci sono stato 4 anni fino a un anno dopo la sua fuga. Addis Ababa era la base per il lavoro che consisteva di progetti di sviluppo di lumgo periodo con la LVIA. Ero con la mia famiglia e con 3 figli.
Un Paese magnifico con una storia molto intensa. Purtroppo ora il Tigray é in fiamme e l’Eritrea e un paese chiuso !! Tremendi sviluppi !!!
Terry