di Stefano Pacini
Mostar. Il ponte distrutto, la netta sensazione di essere tra occidente e oriente la prima sera che arrivammo e il canto del muezzin ci colse di sorpresa. L’aria sospesa, il rumore cupo, instancabile, secolare del fiume. Abitavamo in una casina bianca intatta anche se senza vetri ma teli di nylon alle finestre tra due case diroccate dalle cannonate, con vista su un minareto mozzato.
Ci facevano da guida e traduttori due ragazzi folli di Dio, uno di Bergamo, l’altro di Lucca, che tra una visita e l’altra alle famiglie che avevamo adottato, vedove con figli piccoli, nonni senza una gamba, donne sole e mute, ci allietavano con canzoni terribili sulla potenza del Signore, il cuore di Gesù, e grida improvvise: “Alleluia! Amen!” Avevano danzato a piedi nudi sulla neve per emulare S. Francesco, beccandosi una polmonite, ma non demordevano, inalterabili a tutto quello che accadeva intorno.
Una sera sul viale dei cecchini il ragazzo di Lucca che ci portava in auto dai furgoni ci disse di stare giù e accelerò al massimo con la Panda. In effetti arrivò qualche fucilata vicina, ma lui urlava: “Gesù è potenza! Non ci può accadere nulla! Siamo sotto l’ombrello del Signore, sarà quel che Dio vuole!” Ricordo la faccia che fece Claudio, iniziai a ridere e rise anche lui fino alle lacrime che quando si arrivò salvi alla casettina bianca, il folle ci guardò e disse: “Che vi avevo detto? Dio ci ama!”
Ci conoscevano tutti, “gli italiani, gli italiani,” ripetuto tante volte con intonazioni che andavano dal sarcasmo al piacere a seconda di chi ce lo diceva, sempre sorridendo. I croati no, loro sputavano per terra all’ultimo confine, e con la scusa di controllare il carico ci portavano via dopo un lungo barattamento sempre una scatola di pannolini per bambini che rivendevano al mercato nero. Tanto che Vittorio del Mir Sada ne metteva una vicina al portellone con i pannolini sopra e il cartone nel resto della confezione.
Durante il giorno ed il giro con la consegna pacchi alle famiglie adottate ci toccava accettare caffè macinati a mano e sigarette, gli unici generi che non scarseggiavano in nessuna casa. La sera addormentarsi per i caffè e per il freddo, illuminati da una lampada a gas non era facile. Allora attaccava Vittorio, iniziava il giro dei racconti e della grappa. Era l’unico a parte noi che parlava veramente: Romy, Gigliola, Beppe, sorridevano con poche parole, Vincenzo, l’ex alpino muratore che scaldava pizze surgelate sul filtro motore durante le attese alle frontiere, e che ci salvava dal freddo con la sua riserva tattica di grappa, Vincenzo che alla domanda cosa facesse durante le ferie ci guardava smarrito non capendo il significato della parola, taceva e faticava muto.
Vittorio no, sorrideva e parlava, fumando e bevendo senza interruzione, piacendo alle ragazze, a tutti, era chiaro come fosse l’anima e il trascinatore del gruppo:
I miei da parte di padre venivano dall’Abruzzo, i nonni pastori facevano la transumanza fino in Maremma, magari hanno conosciuto i vostri di nonni. Mio padre emigrò al Nord dopo la guerra, come tanti, in cerca di un futuro migliore, di un mondo migliore. Ma in realtà di mondo non è che ne abbia visto tanto: Dalmine, Capriate, Brembate, operaio specializzato, guadagnava bene per l’epoca, ha convinto i genitori di mia madre a darla in sposa a un terun.
Mia madre ricordava sempre il commento di suo padre: è un terun, ma gran lavoratore. Eccola qui la mia storia, ho potuto studiare al tecnico, ma in fabbrica mi sarei sentito in galera, e allora ho messo su un camion per girare le Valli a vendere surgelati, dal lunedì al sabato, fischia, senza riposi, e la domenica allo stadio per l’Atalanta, ma ho sempre tenuto per la sinistra, come mio padre.
Per la sinistra e per la solidarietà con i lavoratori, con i popoli, come lui che votava comunista in una terra di preti e non si era dimenticato le sue origini, non faceva come tanti che compravano l’Alfun del terun per tornare giù e farsi belli con quelli rimasti nel paese, ostentando l’accento nordico e la puzza sotto il naso.
Abbiamo messo su il Mir Sada, alcuni atei come me, altri cattolici della parrocchia, non potevamo stare con le mani in mano a vedere questo mattatoio, forse è poco ma è importante quello che facciamo, no? Amare la vita, fischia, contro la guerra, sempre, dai. Odia la guerra, mi diceva mio padre, lui l’aveva conosciuta. Datemi la grappa dai, non sono capace a parlare come voi toscani che avete studiato all’università, però so organizzare la lista clienti, sì, insomma, volevo dire, quella delle famiglie, dei pacchi da scaricare, fischia, che cazzo ridete?
Qualcuno racconta che le foto migliori sono quelle che non abbiamo scattato. Sì, è un po’ come quello che di fronte alla cacca di un piccione sul vestito buono dice che porta fortuna. È che le foto non fatte te le ricordi bene, perché continui a immaginarti come sarebbero venute, la tua mente rielabora il ricordo, inquadra sempre meglio, aggiusta le luci con la malinconia di un istante che non sei riuscito a stampare su carta.
Ho due albe a Mostar, la prima sotto il vento fortissimo dei Balcani, nel piazzale della dogana, quattro camionisti che afferravano un gigantesco laccio del telone di un camion per fissarlo ma il vento li faceva sbandare da tutte le parti senza riuscire a domare il telone. L’altra, livida, grigia, lungo la strada era stato scaricato un mucchio di carbone, un gruppo di donne emerse dalla nebbiolina ne caricava nei grembiuli e correva in casa a scaricarlo. Sono sicuro di aver visto questa scena anche nei vecchi filmati bianco e nero della seconda guerra mondiale. Non ci potevamo fermare: via, via, accelera prima che chiudano la strada di nuovo, fischia!
Fotografavo, ma non sempre ce la facevo. Mi ero fermato con Vittorio davanti a quello che era un giardino in una piazza di Mostar Est, aspettavamo i folli di Dio per visitare una famiglia che aveva bisogno di portare un bambino in Italia per cure specialistiche. Il giardino era pieno di lapidi, era diventato uno dei tanti cimiteri interni improvvisati visto che il cimitero principale di Mostar era sotto il tiro di cecchini e mortai croati. Una ragazza molto giovane, alta come solo le ragazze bosniache possono essere, si era materializzata nell’ex giardino. Aveva in mano un mazzo di garofani rossi, ne lasciava uno per lapide, cercando in quella selva muta, fermandosi un poco per ognuna. Presto era rimasta senza garofani. Non ero riuscito a scattare, avevo posato la macchina sul sedile del furgone, Vittorio si era acceso l’ennesima sigaretta, sceso e allontanato bestemmiando a bassa voce in direzione opposta alle lapidi. Età media, vent’anni.
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