“Somali Faces”, volti e storie del ‘popolo dei poeti’

Da quando è scoppiata la guerra civile, verso la fine degli anni ’80, milioni di somali hanno trovato rifugio in diverse parti del mondo, mentre altri sono rimasti nella Regione. Qualcuno ha abbandonato la speranza di tornare, ma molti altri serbano ancora il sogno di andare, un giorno, a casa. E ancora, se milioni di somali sono nati nel paese che li ospita, ci sono tantissimi altre persone nate nel mezzo della brutale guerra civile che insanguina i territori somali.

Donia Jamal Adam e Mohammed Ibrahim Shire sono due fotografi appartenenti alla grande diaspora somala. La loro identità è messa a dura prova dalle immagini con cui facilmente viene descritta la nazione somala: terrorismo, violenza, pirateria. Queste sono le storie che i grandi media tendono a coprire. Con il loro progetto Somali Faces, Sonia e Mohammed intendono invece mostrare i volti della profonda cultura somala, fatta di armonia e resilienza.

“Vogliamo far sapere al mondo che c’è qualcosa di più dello stereotipo del terrorista, del fastidioso rifugiato, del pirata armato fino ai denti e del signorotto della guerra”, hanno dichiarato i fondatori del progetto. “Vogliamo mostrare la resilienza senza tempo del popolo somalo, l’ordinarietà delle loro lotte individuali, vogliamo far sentire la voce che grida contro gli stereotipi. Siamo tutti, semplicemente, esseri umani”.

Il popolo somalo ha molto da raccontare. Non soltanto storie di sofferenza e di dolore, ma anche di speranza e grande intraprendenza. Va considerato inoltre che un importante aspetto della cultura somala è la poesia: la scrittrice canadese Margaret Laurence si riferì alla Somalia come alla “nazione dei poeti“.

“Vogliamo anche ricordare al popolo somalo, con compassione ma decisione, che bisogna superare il tribalismo che ha afflitto da decenni la nostra nazione, e comprendere che tutti i nostri co-etnici hanno le loro lotte, i loro sogni, i loro rimpianti e loro aspirazioni”.

Somali Faces vuole far conoscere le storie che non vengono raccontate, raccogliendo testimonianze da Mogadiscio ai più sperduti villaggi dell’Alaska, se possibile. Perché, per dirla con le parole dei fondatori, “ogni somalo ha una storia da raccontare, che si tratti di un bimbo o di un centenario”.


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“Sono un padre single, e non è facile crescere da solo 7 figli. All’inizio della guerra civile in Somalia, molte famiglie si sono sgretolate. Avevo una moglie, la madre dei miei figli. Quando è caduto il governo centrale, lei ha espresso il desiderio di emigrare, pensando che là fuori ci sarebbe stato una sorta di paradiso ad attenderci. All’epoca ho ritenuto che la cosa migliore sarebbe stata rimanere qui nel Paese, crescendo i nostri figli in una zona più sicura. Ma lei non è rimasta soddisfatta da questa opzione. Successivamente mi ha chiesto dei soldi per andare da un medico in Yemen. Ho pensato che forse una breve pausa le avrebbe fatto bene, le ho quindi dato i soldi e lei è andata, lasciandomi i 7 figli da accudire. Mi sono preoccupato molto, fino a quando – dopo 7 lunghi mesi senza comunicare – mi ha contattato dandomi un ultimatum: trasferirci tutti in Yemen o avviare le pratiche per il divorzio. Le ho detto di non avere i soldi necessari per far viaggiare 8 persone, i bambini erano ancora a scuola e io ero un semplice operaio. Dopo 4 mesi mi ha chiamato minacciando di nuovo il divorzio, dicendo di aver trovato una nuova vita in Yemen. Temendo di perderla, ho investito ogni cosa per andare da lei ad Aden, in Yemen. L’abbiamo cercata per 4 anni consecutivi, e avvicinandoci al quinto anno ho scoperto che lei si era già trasferita in Europa, dove si è creata una nuova famiglia. È passato un altro po’ di tempo, prima che mi chiamasse nuovamente per chiedere il divorzio. Con il cuore in frantumi, le ho spedito i documenti richiesti. I miei figli ed io abbiamo immediatamente lasciato lo Yemen per tornare a Garowe, dove stanno continuando a studiare. Forse è qualcosa che Dio ha predestinato, e io l’ho accettato”.

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(Garowe, Somalia)


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“Sono nata in Pakistan, cresciuta negli Stati Uniti e attualmente vivono ad Hargeisa. Mi sono trasferita ad Hargeisa all’età di 10 anni, dopo la tragica morte di mia madre (che Dio le conceda il Paradiso). Nascere da due famiglie nomadi e molto ignoranti mi ha insegnato molto. Mi ha dato il desiderio di essere istruita e di soddisfare i miei genitori attraverso il mio successo. Da quando mia madre è morta sono stata sempre giudicata severamente, ogni giorno, dagli anziani della nostra comunità somala. Ho sempre voluto essere una conduttrice di telegiornali, la mia famiglia ha sempre scherzato sulla mia voce squillante e sulla mia eccessiva loquacità. Mi sono quindi posta degli obiettivi: essere conduttrice, insegnante, moglie e madre. Ho iniziato a lavorare a 16 anni ala sezione inglese della Radio Hargeisa. Poi ho accontentato mio padre e ho studiato Sanità pubblica in un’università locale, dove mi ho trovato l’amore. A 17 anni non avrei mai pensato di sposarmi, ma ho incontrato mio marito e ho capito che era l’unico per me. Alhamdullilah, siamo  sposati da due anni, ora ne ho 19. Sono riuscita a creare un mio personale percorso didattico, insegno inglese ad altri somali. Dove c’è una volontà, c’è una via. Nonostante l’infanzia dura, l’ambiente sociale disagiato, le etichette che la gente attacca addosso, ricordate una cosa: potete sempre rendere le cose possibili”.

(Hargeisa, Pakistan)

 


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“Siete una famiglia forte, quali sono le vostre caratteristiche migliori?”
“Mi piace la sua personalità rilassata, non serba mai rancore nei miei confronti e, soprattutto, è una superdonna. E sta crescendo magnificamente sia il bambinone adulto che sono io che nostra figlia”.
“Lui è un padre meraviglioso, ama nostra figlia e, sebbene lavori tantissimo, adempie a tutte le sue responsabilità”.

(Londra, Regno Unito)


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“Le persone si lasciano andare facilmente ai pregiudizi”
“Cosa intendi?”
“Mi interesso di ingegneria aerospaziale. Eccello in matematica, in fisica e in inglese, sono stato accettato all’università dove mi sono candidato ma tutto quello che le persone notano è che indosso sempre un cappuccio”.

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(Leicester, Regno Unito)


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“Sono arrivato in Arabia Saudita nel 1953. Sebbene sia un paese musulmano, noi africani neri ci siamo sentiti inferiori, ci hanno trattati da inferiori. L’Arabia Saudita era all’epoca un paese molto povero e la vita è stata una continua lotta. Non ho ottenuto alcun permesso per lavorare, sono stato quindi costretto a lavorare illegalmente per sopravvivere. Qualsiasi lavoro trovassi andava bene, pur di arrivare al pasto successivo. Messo da parte abbastanza denaro, nel 1956 ho lasciato l’Arabia Saudita e sono arrivato nel Regno Unito. Ho pensato di essere approdato alla terra promessa della modernità, al luogo che avrebbe dato istruzione e conoscenza. Ho invece visto persone dalla faccia sporca, le cui mani erano coperte di catrame. Ma è stato bello essere retribuito. Ogni settimana, dopo aver pagato le tasse, mi rimanevano 5 sterline. Mi sono sentito ricco”.

(Cardiff, Regno Unito)


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“Per anni ho frequentato un corso che non mi ha dato soddisfazione, soltanto per compiacere i miei genitori. Di recente ho trovato il coraggio per cambiare e iscrivermi a un corso che mi è sempre piaciuto, sin da quando sono stata bambina. Uno dei mi più grandi sogni: la zoologia”.
“Non penso di aver mai sentito di una somala studiare zoologia”.
“Neanch’io, se è per questo”
“Il mio consiglio? Fa’ qualcosa che ti possa davvero rendere felice”.

(Londra, Regno Unito)


 

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“Qual è la tua più grande ambizione?”
“Rendere il mio paese grande, di nuovo. Ho visto immagini su com’era la Somalia prima che nascessi. Prima della distruzione. Ho fissato quelle immagini tantissimo, e mi sono sentito spaesato. Com’è possibile che tutto questo, all’improvviso, è andato via? Poi mi sono arrabbiato, mi sono chiesto perché non sono nato in quella generazione che si è goduta la pace ed ha vissuto dignitosamente. Mi sono chiesto come ha potuto quella generazione lasciare a noi questo macello. Poi ho iniziato a pensare che, sebbene la mia generazione non l’abbia mai visto, ciò che è stato distrutto può essere costruito di nuovo. E ho sorriso. Voglio che la mia generazione renda questa terra nuovamente prospera, se Dio vuole”.

(Mogadiscio)


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“Cosa pensi del popolo somalo?”
“Penso che somali e marocchini siano un unico popolo. Siamo entrambi musulmani. Ricordo quando il Marocco e la Somalia sono state le uniche due nazioni africane a rigettare i confini decisi dalle potenze colonialiste. Abbiamo entrambi combattuto duramente per la nostra terra. Negli anni ’70 la Somalia è stata molto attiva nella scena africana. Ha agito molto contro il colonialismo. All’epoca ho pensato che si potesse unire l’Africa intera, ma poi le cose sono andate diversamente. Parlo molto di questo con i somali che vengono qui. Quando dico loro di essere arabi, alcuni lo accettano con orgoglio, altri dicono invece di essere africani. E io rispondo loro: possiamo essere sia arabi che africani”.

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(Marrakesh, Marocco)


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“Siamo stati da qualche parte in Nord Africa per quasi 4 mesi. Una volta compreso che le cose sarebbero andate per le lunghe, ho deciso insieme ad un amico di cercare fortuna in Tunisia. Abbiamo camminato nel torrido deserto del Sahara per 2 giorni. Poi abbiamo litigato, e le nostre strade si sono divise. Continuamente disidratato, ho vagato alla ricerca di acqua. Ma all’improvviso ho sentito qualcosa o qualcuno toccarmi il braccio sinistro. Mi sono voltato: un enorme serpente velenoso aveva avvolto la bottiglia di plastica che brandivo inutilmente. Il terrore del suo sibilo minaccioso mi ha dato la forza per scappare. Ho implorato Dio di risparmiarmi. Ho continuato a correre, ma la disidratazione ha avuto la meglio e sono svenuto. Questo è il deserto del Sahara: il momento in cui perdi i sensi coincide con il momento della tua morte. Ma sono stato fortunato: un mio amico ha seguito le mie orme e ha trovato il mio corpo esanime. Mi ha dato dell’acqua. Mi ha salvato la vita”.

(Colonia, Germany)


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“Sono cresciuto in Siria, insieme ai miei fratelli. Ho studiato là fino al liceo. Unico ragazzino nero in tutta la classe, le insegnanti mi hanno trattato benissimo. Non sapendo il perché di questo trattamento, mi è stato poi spiegato: prima della guerra civile somali e siriani sono stati in ottimo rapporto. Ci sono stati frequenti programmi di scambio culturale tra i due popoli, prima della distruzione. I professori mi hanno raccontato che i momenti passati in Somalia sono stati i più belli della loro vita, che i somali li hanno accolti benissimo e li hanno fatti sentire a casa propria. Oggi ho il cuore a pezzi perché quelle persone, che a loro volta mi hanno mostrato tantissimo amore e generosità, sono dilaniate da una guerra sanguinosissima. Loro hanno forgiato la mia personalità. Un giorno la Siria tornerà stabile e regnerà la pace, e io restituirò il favore, in un modo o in un altro”.

(Leicester, Regno Unito)


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